Giusto un anno fa Mario Draghi saliva al Quirinale per dimettersi da presidente del Consiglio di un governo di unità nazionale. Il più longevo nella storia della Repubblica (1 anno e 8 mesi), guidato da una personalità estranea ai partiti. Al suo posto, ironia della sorte, sarebbe finita Giorgia Meloni, l’unica avversaria di quell’esecutivo di pronto soccorso per sanare la crisi economica e sanitaria: il Covid faceva ancora paura. Dunque, un anno senza Draghi, eppure i frutti di quel che ha seminato l’italiano più apprezzato nel mondo per le sue competenze in campo economico e finanziario -in precedenza era stato presidente della Bce per 9 anni e per quasi 6 Governatore della Banca d’Italia-, ancora si raccolgono. Definire “draghiana” la Meloni sarebbe un eccesso per lei e per lui. Tuttavia, l’attuale presidente del Consiglio è rimasta nel solco della linea tracciata da Draghi in politica economica ed estera. Pur con gli inevitabili aggiornamenti ed evitabili ritardi, il cosiddetto PNRR rielaborato da Draghi per il rilancio della produzione e del lavoro italiani, è ancora il motore della ripresa. E nel rapporto con Bruxelles l’esecutivo-Meloni ha abbandonato le tentazioni populiste e sovraniste a lungo cavalcate. Lo testimonia, da ultimo, il memorandum italo-europeo firmato in Tunisia dalla Meloni, che ha voluto farsi accompagnare proprio dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Continuità anche sulla posizione dell’Italia contro la guerra di Putin, cioè a fianco dell’Ucraina, della Nato e dell’Occidente, seguendo l’indirizzo atlantista di Draghi e del suo celebre viaggio in treno a Kiev con Scholz e Macron. Né si può dimenticare che, se oggi abbiamo appeso le mascherine al chiodo, merito è della campagna di vaccinazione promossa da Draghi-Figliuolo. Spesso criticata -altra ironia della sorte-, dalla Meloni per un rigore ritenuto eccessivo, e invece rivelatosi vincente. Il lascito di Draghi è nell’impossibilità politica, per la Meloni e per chiunque verrà dopo di lei, di tornare indietro rispetto ai doveri istituzionali della serietà, capacità e credibilità richiesti per amministrare la cosa pubblica. C’è un dopo Draghi che è un patrimonio di tutti. Intanto, lui è uscito di scena così come vi era entrato: in punta di piedi e dando del lei ai suoi ministri. Un gran signore lontano dai partiti. Questa è stata la sua forza, che si è trasformata in debolezza quando la politica è stata chiamata a scegliere il nuovo presidente della Repubblica per fine mandato di Mattarella, che non desiderava il bis. E chi, se non Draghi? Ma la formazione di “unità nazionale” non ha voluto quell’“intruso”, che pure aveva appena rimesso l’Italia in cammino. E che oggi, ritirato e fuori dai giochi di Palazzo, resta comunque una riserva della Repubblica. Come nessuno sa meglio del presidente Mattarella, che fu l’artefice del capolavoro di Draghi a Palazzo Chigi.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi