Paladini del rigore quando si è all’opposizione, garantisti e difensori del principio costituzionale di presunzione di innocenza quando si governa.
E’ il copione che da più di trent’anni, e con toni sempre più accesi a partire dalle inchieste giudiziarie di Mani Pulite nel 1992, la politica ama recitare nei suoi ancora irrisolti rapporti con la magistratura. Blandita e rincuorata a fare il suo dovere nei confronti degli avversari politici. Ma contestata e accusata di gravi interferenze ogniqualvolta tale dovere colpisce amici di partito o alleati di maggioranza.
Ora la regola senza eccezioni -se non quelle dei governi tecnici o di unità nazionale alla Mario Draghi, estranei per natura ai conflitti politico-giudiziari-, vale per l’esecutivo-Meloni.
“Giustizia a orologeria, la magistratura non faccia l’opposizione”, è la dura polemica che trapela dopo un Consiglio dei ministri. Nel centrodestra si riferiscono ai casi della ministra del Turismo, Daniela Santanché -di cui s’è saputo che era indagata proprio nel giorno dell’informativa con cui illustrava al Senato le sue antecedenti e controverse vicissitudini di imprenditrice- e soprattutto del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. Per il quale il giudice delle indagini preliminari ha ordinato l’imputazione coatta per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione al caso Cospito (l’anarchico detenuto al 41 bis) a fronte della richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura. Quanto basta per scatenare la reazione di Giorgia Meloni e per rilanciare la separazione delle carriere e la riforma della giustizia anche per introdurre massima segretezza per l’avviso di garanzia e per cambiare l’imputazione coatta. Ferme restando le già annunciate modifiche o abolizione dell’abuso d’ufficio e la stretta sulle intercettazioni nel testo del ministro della Giustizia, Carlo Nordio.
Un testo osteggiato “dalla parte più politicizzata dei giudici”, come dicono nella maggioranza. Ora decisa a giocare in anticipo per non fare il bis dei governi-Berlusconi, irretiti in una guerra infinita contro le “toghe rosse”.
Ma il cortocircuito tra politica e giustizia s’alimenta di opposti pregiudizi.
I partiti sospettano chissà quali dietrologie a fronte delle inchieste sgradite. I magistrati troppo spesso “giudicano” le leggi, cioè le interpretano, anziché applicarle. E quando manca il rispetto dei ruoli fra le parti, le reciproche invasioni di campo sono l’esito scontato e sbagliato.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi