Per fortuna non è una priorità, visto che abbiamo un presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel pieno delle sue funzioni e del sostegno in Parlamento e nel Paese. La buona ventura ci assiste anche coi precedenti: ogni qual volta i legislatori hanno approvato una grande riforma, che in realtà era fatta male, poi ci hanno pensato gli italiani, chiamati a referendum, a bocciarla (con l’eccezione dell’allora sottovalutata modifica del titolo V della Costituzione, un pasticcio da tutti oggi riconosciuto e a cui deve continuamente porre rimedio la Corte Costituzionale a colpi di sentenze).
Dunque, la Repubblica ha le spalle sufficientemente robuste di fronte all’ipotesi di introdurre l’elezione diretta del capo dello Stato promossa dal centrodestra. Sarebbe una novità epocale, e perciò appare scontato che l’ultima parola ancora una volta spetterà al popolo sovrano.
Ma questa è la fine di una storia tutta ancora da cominciare, e che proprio ora inizia il suo cammino con incontri fra maggioranza e opposizioni previsti per domani (primo faccia a faccia Meloni-Schlein).
E allora, per partire col piede giusto, due sono le condizioni che andrebbero rispettate. La prima tocca al proponente centrodestra, ed è quella di sforzarsi fino all’ultimo per trovare un’intesa istituzionale con l’altra parte. Se non sul merito del testo, almeno sul metodo del lungo cammino costituzionale a cui la riforma è destinata.
Spetta, parimenti, alle opposizioni evitare che il loro già preannunciato dissenso diventi ostruzionismo. “Se le opposizioni diranno no, noi andremo avanti”, non per caso ha dichiarato Antonio Tajani (Forza Italia).
Sul punto, il presidenzialismo, ci sono buone ragioni per il sì e per il no.
I favorevoli ricordano che gli italiani eleggono direttamente tutte le istituzioni, dal sindaco al governatore: perché non dovrebbero essere maturi per saper distinguere un candidato stile Mattarella, Napolitano o Ciampi -giusto per citare solo gli ultimi tre e importanti presidenti- da un demagogo di turno? E poi la legittimità degli elettori può contribuire alla stabilità del sistema politico, cioè correggere la cronica debolezza, per esempio, di governi che sorgono e cadono di continuo.
Replicano i contrari: ma che senso ha modificare proprio l’unico istituto che funziona bene e che è da tutti condiviso? Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale e la sua elezione in Parlamento lo tiene fuori dalla polarizzazione quotidiana della politica. Se fosse, invece, eletto dai cittadini, inevitabilmente una parte prevarrebbe sull’altra e l’eletto (o l’eletta) sarebbe un po’ meno “di tutti”.
Il compromesso fra le due posizioni potrebbe portare alla proposta di eleggere non già il capo dello Stato, ma il presidente del Consiglio. Su questo Calenda e Renzi non sarebbero lontani da Meloni, Salvini e Berlusconi.
Si vedrà. Ma sullo sfondo resta una sola e non contestabile, neanche dalle opposizioni, esigenza: quella del contrappeso nazionale all’autonomia differenziata anch’essa partita in Parlamento. Più libertà avranno le Regioni, maggiore sarà la necessità della Repubblica, una e indivisibile, di poter intervenire per salvaguardare i principi e i diritti di eguaglianza sull’intera Penisola. E’ chiaro che un capo dello Stato o un capo del governo forti, ossia scelti da tutti gli italiani, possono meglio garantire l’equilibrio dei poteri che dal centro si sposteranno ai presidenti di Regioni.
La grande riforma è anche una grande sfida per tutti.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi