Era stato sospeso a causa del Covid, e non era mai successo nella sua storia quasi trentennale. Ma ora il “Patto di stabilità e crescita”, due paroline che sembrano l’una il contrario dell’altra e che piacciono la prima al mondo tedesco e nord-europeo, l’altra a quello sud-europeo e mediterraneo, va incontro alla sua tanto auspicata riforma.
La Commissione europea s’accinge in queste ore a presentare la proposta legislativa per riformare il Patto, che da troppo tempo si regge su due pilastri: il deficit pubblico non deve superare il 3% del Pil e il debito pubblico non può superarne il 60%.
Sono principi che, specie quando vennero alla luce nel 1997, miravano a sostenere le politiche di bilancio, correggendo disavanzi o debiti in eccesso. Ma da allora è cambiato il mondo e l’Europa ha conosciuto crisi economiche, sanitarie, militari (la perdurante e orribile guerra in Ucraina): non c’è ambito, dal digitale all’ambientale all’energetico, in cui il Patto non abbia un impatto, diretto o indiretto.
Dunque, è arrivato il momento delle nuove regole e l’Italia arriva all’appuntamento in solitudine. Dall’interno dell’Ue la Germania, cioè il Paese-leader dell’economia europea, punta a un meccanismo rigido sul calo del debito, anche se oggi non così rigido come da sua consolidata tradizione. Dall’esterno la Banca centrale europea non è più guidata da Mario Draghi, che alla competenza che gli permetteva di affrontare il perenne dissenso dei tedeschi, e di batterlo, associava una sensibilità del tutto sconosciuta alla sua erede Christine Lagarde. Che, al contrario del più rigoroso e coraggioso predecessore, mai ha ancora pronunciato il celebre “whatever it takes”, cioè il faremo di tutto pur di salvare il senso stesso dell’Unione europea, difendendone la moneta dalle speculazioni.
Per il nostro Paese la sfida è come far valere una maggiore flessibilità. Di quanto tagliare il debito e la spesa strutturale per non vanificare la crescita? Come rispettare la titolarità degli Stati sui conti pubblici con il dovere comune di concordare percorsi e aggiustamenti? Quali soglie e con quali criteri ottenere il bilanciamento fra sostenibilità e sviluppo?
Si va, dunque, alla ricerca della nuova disciplina economica in grado di contemperare esigenze molto diverse fra solidità dei conti pubblici e nuove possibilità di investimenti.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi