E’ una lunga, interminabile lettera d’addio. Per salutare per sempre l’Italia dei nostri bisnonni e dei loro padri, il governo presenterà un disegno di legge che abolisce le norme pre-repubblicane dal 1861 al 1870.
Inevitabile, eppur malinconico il commiato all’ordine del giorno del prossimo Consiglio dei ministri. Sull’onda di un esame preliminare del ministero delle Riforme Istituzionali guidato da Maria Elisabetta Alberti Casellati, cala il sipario su una miriade di decreti, naturalmente “regi”, degli anni più felici del Risorgimento. Quando la meglio gioventù dell’epoca coronò il sogno degli italiani con una Patria nell’animo che li identificava e una lingua, bellissima, che li associava. Ma tutti erano ancora senza Stato. Che nasce e comincia a crescere proprio in quel decennio di grandi speranze, dall’Unità d’Italia a Roma capitale. Un decennio che presto sarà destinato all’oblio formale di ben 2.536 disposizioni già decretato dal tempo.
Spulciando fra le pagine della Storia, prima che spariscano sulla Gazzetta Ufficiale, torna in mente l’Italia in bianco e nero degli uomini rigorosamente con barba e pizzetto -da Garibaldi a Cavour, da Mazzini a Vittorio Emanuele II- e delle donne protagoniste al loro fianco, e talvolta avanti a loro (si pensi ad Anita) con abiti semplici e spirito guerriero.
Erano giovani padri e madri della Patria che interpretavano il sentimento silente, ma verace e diffuso di un popolo dedito all’agricoltura e al commercio. Regnava un’economia pre-industriale di cui oggi stentiamo a immaginare la fatica familiare e collettiva che comportava.
Tuttavia, ci pensano le parole astruse che presto scompariranno, a ricordarcelo. Con regolamenti “per le tasse bestiame e focatico rustico”, cioè l’imposta, chiamiamola, abitativa applicata, appunto, al focolare. E poi “la tariffa pel dazio di consumo”, “la sovraimposta alle contribuzione dirette al pagamento di porzione del canone gabellario”, perfino “la tassa sui cani e sui cavalli”. Il fisco non scherzava neanche con gli italiani di allora. Ma c’era almeno una nuova spiegazione: lo Stato da costruire.
E che dire delle disposizioni “circa le pensioni vitalizie da assegnare ai Postiglioni Lombardi”, cioè a chi guidava i cavalli delle carrozze di posta? O del regolamento “per l’esame da subirsi dagli aspiranti all’esercizio della Pubblica mediazione nella Provincia di Bologna”? O l’autorizzazione a una società di mutuo soccorso ad agire “contro i danni della grandine”, e a un’altra “a costruire un esercizio di pubblico macello”, e a un’altra ancora “a regolare il Corpo dei Pompieri”? Fino ad arrivare al regolamento “per la vendemmia delle uve” o “pei barcaiuoli”.
Categorie di lavoratori, ma anche persone con nome e cognome ed enti ben definiti. A tale Signor Luigi Rinaldi si autorizza la cessione “di una casa demaniale della Città di Rimini”. Ad un’assicurazione con sede a Londra “di estendere le operazioni in tutto lo Stato”. La data del decreto appena citato, il 252, è del 29 dicembre 1861. Particolare interessante: il Paese unito da pochi mesi -il Regno d’Italia era stato proclamato il 17 marzo di quell’anno-, faceva uso esplicito e fiero dell’espressione “Stato”.
Numerose le disposizioni sulla polizia urbana, ma anche e soprattutto “polizia rurale”, altro specchio dell’epoca. Così come le incursioni fra “allievi militari” e “guardie municipali”, tra assicurazioni marittime e rassicurazioni toponomastiche. A oltre un secolo e mezzo di distanza, si rilegge la vita di un Paese che risorgeva, e che raccontava, regolandole, tante piccole, grandi storie nei Comuni elencati.
Riaffiora l’Italia delle cento città, un regio decreto dopo l’altro.
“Comune” è di gran lunga la parola più usata e non per caso, perché è la fonte secolare dell’unità nella diversità, della bellezza e della grandezza di una Nazione antica con il diritto al suo Stato finalmente ottenuto e riconosciuto. A maggior ragione quando, dal 1861 in poi, tale diritto lo si poteva rivendicare a viso aperto e a legislatura vigente, senza dover più ricorrere al “viva Verdi!” per esaltare con astuzia il nostro musicista principe e allo stesso tempo inneggiare a “Vittorio Emanuele Re d’Italia” sotto il naso degli austriaci.
Per questo l’ineluttabile abolizione, nell’Italia che cambia, di un’Italia che non c’è più, non può avvenire senza almeno un segno di gratitudine verso una generazione che ci ha trasmesso libertà e unità anche a colpi di decreti ormai vetusti. C’eravamo tanto amati, ma non dimenticheremo l’Italia dei bisnonni e dei nonni dei nonni.
Sopravvive, all’addio burocratico, il messaggio di rinascita, di orgoglio e di concordia frutto di un decennio che ha plasmato la storia nazionale fino ai giorni nostri.
Siamo figli dei figli anche di quei fogli che non dicono più niente, perché ci hanno già donato tutto.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma