Verrà il giorno, si spera non lontano, che anche del terremoto si potrà prevedere come e quando colpirà, così da poter avvertire in tempo le persone e prevenirne almeno i più gravi effetti mortali. Per ora la scienza riesce a indicare solo il dove avverrà. E ciò già consente ai Paesi più esposti al sisma, e organizzati, come il Giappone, di educare la popolazione fin dalla scuola sul che fare quando arrivano le scosse. E consente di costruire case e città capaci di resistere alla furia cieca e improvvisa della superficie terrestre, ogni volta che ondeggia.
Purtroppo il disastro in Turchia e in Siria, reso tale anche dall’energia fortissima dispiegata dal terremoto, lascia solo dolore e rovine.
Ma induce il mondo intero a far valere quel senso di umanità troppe volte perduto, e ora riscoperto con una catena di aiuti formatasi sopra ogni lingua, confine, religione: solidarietà è il suo nome universale.
D’improvviso ci sentiamo accanto a gente sconosciuta, ma che piange le nostre stesse lacrime. Che ha perso ciò che ognuno di noi avrebbe perso nelle stesse drammatiche condizioni. E che nulla chiede, tanto è inconsolabile la sua sofferenza di queste ore. Siamo invece noi, umanità incredula e ferita, a mobilitarci per salvare quelli che ancora si possono salvare. Per dare conforto nell’ora dell’emergenza. Per contribuire a ricostruire domani, quando sarà.
Impossibile non paragonare questa catastrofe all’altra che stiamo vivendo da quasi un anno. E che, a differenza dell’imprevedibile sisma, è stata provocata con scelta consapevole e cognizione di causa: la guerra.
Stessi edifici rasi al suolo, stesso sangue innocente, stesse scene di famiglie che piangono e rimpiangono. Madre Natura da una parte, uomini con nome e cognome dall’altra, eppure le macerie e il dolore non hanno colore né pietà: sono uguali ovunque e per tutti.
Ma se il terremoto smuove anche l’umanità in nome della solidarietà, che è l’arma più potente, la guerra porta con sé l’ulteriore danno della divisione. Divisione feroce fra chi attacca e chi si difende. Tra chi sostiene gli aggrediti e chi sorvola sull’aggressore. Fra un mondo che vuole vivere in pace e un altro che ricorre, ancora, alle bombe per far sentire che esiste. Bombe chiamano bombe e l’inferno si propaga.
E fermare la follia diventa ogni giorno più complicato.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi