Quest’anno ricorrono i quarant’anni del primo e serio tentativo di riformare l’ordinamento della Repubblica. Correva l’anno 1983 e il senatore liberale, Aldo Bozzi, presiedeva la prima commissione parlamentare chiamata a rinnovare la Costituzione del 1948.
Da allora una quantità immensa di proposte, commissioni e soprattutto chiacchiere è naufragata in barba agli impegni, anche solenni, presi dai partiti ed esaminati in Parlamento una legislatura dopo l’altra.
L’insegnamento del puntuale e ricorrente naufragio è che bisogna sempre distinguere le opinioni riformatrici, anche quelle all’apparenza più sensate, dalle circostanze politiche. Perciò, quando Matteo Salvini, leader della Lega, sostiene con ragionevolezza che introdurre l’autonomia differenziata sarebbe più facile del presidenzialismo, e che pertanto si possa fare la prima nell’attesa del secondo, dimentica due cose.
Che nella pur lunga (tre ore) conferenza-stampa di fine anno di Giorgia Meloni, presidente del Consiglio e alla guida di una formazione politica che ha tre volte e mezzo i voti raccolti dalla Lega, la parola autonomia non è mai stata pronunciata. A differenza dell’elezione diretta del capo dello Stato, caldeggiata, invece, dalla Meloni come priorità per tutta la coalizione. A ciò s’aggiunga che Forza Italia (voti e parlamentari equivalenti a quelli di Salvini), con la sua ministra delle Riforme, Elisabetta Casellati, s’è espressa per il presidenzialismo come impegno inderogabile.
E allora incrociando non le opinioni che volano nel vento, ma i fatti e gli schieramenti si può dedurre che il fattore temporale (che cosa viene prima?), conta poco. In realtà, conta che il centrodestra si presenti consapevole all’appuntamento dell’autonomia, destinata a valorizzare le diversità regionali nella sola e ovvia cornice ammessa dell’unità nazionale.
Ma proprio per questo sarà complicato che tale traguardo prescinda dall’invocato presidenzialismo, obiettivo prevalente delle forze prevalenti.
Dunque, riforme con realismo o con ideologismo? Il centrodestra decida.
Nel primo caso la grande riforma, che mai come oggi gode di un così ampio consenso di partenza, cioè di maggioranza, non si potrà fare a pezzetti, ma insieme. Nel secondo ciascuno potrà continuare a reclamare la sua predilezione a dispetto delle altre e degli altri.
Ma -le Bicamerali insegnano- difficilmente porterà la “sua” riforma a casa.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi