Il colpo di scena ha già fatto il giro del mondo: Mario Draghi, la personalità italiana più apprezzata all’estero, non ha più il sostegno della sua coalizione di governo.
In una seduta del Senato che passerà alla storia parlamentare come la più surreale della legislatura agli sgoccioli, finisce la maggioranza di unità nazionale con il primo atto della campagna elettorale ormai in corso: i veti incrociati del M5S, che la settimana scorsa aveva negato la fiducia al governo di cui faceva parte aprendo la crisi politica, e Lega e Forza Italia che l’hanno negata ieri, suggellandola, la crisi. Per dire sì, Berlusconi e Salvini chiedevano un governo senza i pentastellati.
Ma i contestatori della maggioranza sfaldata non hanno votato “no” alla risoluzione semplice e chiara (“Il Senato, udite le dichiarazioni del presidente del Consiglio, le approva”) presentata da Casini e accolta da Draghi, bensì sono usciti dall’aula o vi sono rimasti senza partecipare al voto. Un modo anche per non passare davanti agli italiani come i responsabili della caduta della persona che per competenza e autorevolezza da tutti riconosciute era stata chiamata al pronto soccorso dell’economia, della pandemia e della guerra sopraggiunta. Beffardo l’esito finale: Draghi la fiducia l’ha ottenuta (95 sì e 38 no), ma lontano dalla maggioranza assoluta e in un contesto frantumato.
Nel suo intervento, e ancor più nella replica, il presidente del Consiglio aveva posto le condizioni per dar vita a un “nuovo patto” tra le forze che lo appoggiavano. Non un discorso di compromesso, ma il duro richiamo al dovere delle riforme strutturali senza scorciatoie e a una politica estera forte e credibile. “Il reddito di cittadinanza? E’ una cosa buona, ma se non funziona, è una cosa cattiva”, una delle riflessioni riservate sia al M5S che alla Lega, bacchettata per aver condiviso -partito di governo- le proteste dei tassisti.
La rottura rischia d’avere effetti immediati in almeno due campi: l’economico e l’internazionale. Proprio oggi si riunisce la Bce e l’instabilità italiana appena decretata può spingere i falchi a voler riconsiderare il cosiddetto scudo anti-spread che la presidente Lagarde doveva presentare per difendere i Paesi più esposti.
L’altro contraccolpo riguarda la strategia italo-europea per l’Ucraina. Un Draghi non più al centro della scena già occupata da un indebolito Macron e senza più Johnson, è quanto di meglio Putin potesse sognare.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi