Bastano i numeri per fare il primo bilancio della guerra dei 100 giorni che lascia senza parole, e che non accenna a finire. Dall’inizio dell’aggressione russa, il 24 febbraio, a oggi, quella che doveva essere l’invasione-lampo per sottomettere l’Ucraina e sostituire Zelensky con un presidente fantoccio agli ordini di Putin, s’è trasformata in una guerra di logoramento con migliaia di morti (oltre 4 mila solo i civili, fra i quali molti bambini) e macerie ovunque. E poi centinaia di cadaveri scoperti in fosse comuni e frutto di crimini contro l’umanità, oltre 5 milioni di profughi e il 20 per cento del Paese finora occupato dalle truppe di Mosca. Che hanno trovato un’accanita e soprattutto inaspettata resistenza degli aggrediti, aiutati a difendersi dall’Occidente con armi, sostegno economico e sei pacchetti di sanzioni Ue decretati contro la Russia. Orrore ed eroismo.
L’”operazione militare speciale”, com’è stata battezzata da Putin e imposta al suo popolo di chiamarla, ha portato anche a migliaia di caduti fra gli invasori -generali compresi-, a inattese difficoltà economiche e alimentari per la popolazione, all’isolamento internazionale del Paese sottoposto a un’informazione di regime, che censura le perdite militari e le proteste in piazza. La celebre “glasnost”, la novità della “trasparenza” invocata all’epoca di Gorbaciov, è stata sepolta da Putin all’insegna della pura e dura propaganda. E perciò risulta complicato valutare che cosa stia realmente accadendo nella cerchia di potere a Mosca e quali ripercussioni per la società russa.
Dunque, una guerra devastante e senza vincitori, destinata a durare a lungo con gravi conseguenze per il mondo: il gas per l’Europa, il pane per l’Africa, la libertà per l’Ucraina. Ma anche per i due popoli in conflitto tra loro, perché sangue chiama sangue e l’odio fomenta l’odio.
Ecco perché, cento giorni dopo, le ragioni della pace sono più forti e urgenti di ieri, ma il percorso politico e diplomatico per arrivarvi è tuttora da costruire. Già sapendo che il punto di vista di chi ha subìto la violenza e perso un quinto della propria sovranità territoriale, non potrà essere equiparato con quello di chi la guerra ha scatenato.
Il traguardo di una pace giusta -non della resa al prepotente- è la strada che l’Occidente ha scelto di seguire. Ma, per ottenerla, è fondamentale che i Paesi europei e atlantici restino uniti.
Pubblicato su Bresciaoggi