Nell’anno di Dante, di Draghi e di Francesco, il Papa argentino che parla in italiano all’universo, il ricordo dei cent’anni del Milite Ignoto in realtà non suggella, ma rinnova l’identità nazionale.
L’Italia fa pace con il suo passato, onorando come si deve i tanti ragazzi senza nome (o che si chiamavano Cesare Battisti e Nazario Sauro, Filippo Corridoni e Francesco Baracca), che nella tragica Grande Guerra del 15-18 diedero la vita per la Patria libera e unita.
E poi rispunta il futuro della memoria con quel treno dalla locomotiva a vapore che ha ripercorso da Aquileia alla capitale il viaggio della salma sconosciuta di un soldato scelto da mamma Maria -nome di tante madri d’Italia di ieri e di oggi-, testimoniando che l’Italia ha ritrovato la sua ragion d’essere nell’amore che sa suscitare sempre e ovunque. Portano ancora a Roma tutte le strade del mondo, come il G20 della scorsa settimana ha, del resto, appena confermato.
Può sembrare stravagante sottolineare il riconquistato orgoglio di sentirsi italiani: in fondo quale popolo della Terra non è fiero di sé?
Ma qui la politica ci aveva abituati all’eterna lotta tra guelfi e ghibellini: il mio campanile suona più forte del tuo. Qui si discuteva (sembra preistoria: accadeva ieri l’altro) di cambiare nientemeno che l’inno con altre musiche. Qui sventolava il Tricolore nelle piazze solo quando la Nazionale di calcio vinceva un Mondiale. “Paese”, ripetevano i politici, terrorizzati dall’idea che gli scappasse un Patria o una Nazione, parole pur incise nella Costituzione.
Oggi, invece, la bandiera nazionale è il naturale segno di riconoscimento perfino nei cortei di qualsivoglia protesta.
Oggi la gente si emoziona per un evento di cent’anni fa, cioè quando nessuno o quasi dei contemporanei era neanche nato: il Milite Ignoto ha commosso il cuore italiano di tutti.
Oggi pure la politica faziosa, forse l’endemico tributo che l’Italia deve pagare in Patria per farsi perdonare la bellezza e la grandezza che emana nell’universo, si rassegna al governo di “unità nazionale”. E i partiti accettano col mal di pancia una personalità più brava di loro che dà la rotta (Draghi). E ne ascoltano un’altra sopra le parti che rassicura per la riconosciuta saggezza applicata (Mattarella).
Dunque, non è stravagante constatare che persino la politica del litigio permanente stia cambiando nell’Italia che è già cambiata.
Tifare per gli Azzurri non è più l’unica espressione patriottica dei cittadini. La pandemia con le bandiere e i canti sui balconi, e i medici e gli infermieri Caduti per salvare malati, e il traguardo del 90 per cento della popolazione presto vaccinata, hanno dimostrato di che cosa sono capaci gli italiani “nell’ora più buia”. Il popolo più anarchico d’Europa sa battersi con passione e maturità per il bene comune.
Il 4 novembre torna perciò a essere “la giornata della Vittoria”, come si evocava un tempo e come meriterebbe d’essere ripristinata quale festa nazionale. Vittoria, certo, per aver completato, al costo della vita per 650 mila giovani e delle gravi ferite per un altro milione, il sogno del Risorgimento, cacciando per sempre l’invasore dalle nostre case. Ma Vittoria soprattutto perché oggi, cent’anni dopo, ci accorgiamo di che cosa significa essere figli dei figli dei nostri padri. La felicità di sentirsi liberamente italiani.
Nell’anno di Dante, al passaggio del Milite Ignoto struggente oggi come allora, abbiamo ritrovato, senza cercarlo, il senso della Patria. Quello spirito generoso e ingegnoso che cova sotto la cenere delle mille polemiche, pronto a risorgere e rinascere nei momenti che contano. Siamo italiani ogni volta che capiamo che dobbiamo essere italiani. Ecco il dono senza tempo della salma senza nome: l’amore per l’Italia.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma