Non un italiano, ma il più grande scrittore argentino, Jorge L. Borges, definiva Dante “poeta simbolo dell’Italia e per questo di tutto l’Occidente”. Raccomandando, proprio lui, Borges, forse l’unico argentino senza una goccia di sangue italiano nelle vene, di leggere la Divina Commedia direttamente in italiano, anziché nelle pur tante traduzioni disponibili nel mondo.
Che si può dire, allora, quando nel settecentesimo anniversario di Dante un traduttore tedesco, e fondatore del quotidiano Frankfurter Rundschau, Herr Arno Widmann, dice che l’Italia ha poco da festeggiare? E dà del plagiatore al Sommo Poeta? E lo considera “anni luce” più indietro di Shakespeare? (non è dato sapere perché Herr Widmann abbia dimenticato Cervantes, Victor Hugo e persino il casalingo Goethe in questa stravagante classifica).
Sul punto letterario non è neanche il caso di disquisire. Bene ha fatto il ministro della Cultura, Dario Franceschini, a sorvolare con un dantesco “non ragioniam di lor, ma guarda e passa…” (canto III dell’Inferno per chi volesse scoprire a quale categoria di dannati Dante riserva questi versi).
Invece vale la pena cercare di capire perché, periodicamente, un tedesco si alza la mattina e non trova di meglio che sparlare del più grande poeta italiano “e forse del mondo” (repetita di Borges iuvant). Ma via subito gli stereotipi: la grande cultura tedesca, gli intellettuali, gli artisti, i pensatori hanno sempre amato l’Italia. Non occorre citare il celebre viaggio di Goethe nel nostro Paese “Kennst du das Land? wo di Zitronen blühn…”, conosci la terra dove fioriscono i limoni?”, scriveva immortalando la Sicilia. Per non restare al pur ricco secolo del “Grand Tour” degli europei con destinazione Italia, basta ricordare che l’allora direttore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, il principale quotidiano della Germania, Frank Schirrmacher in una lettera aperta pubblicata anni fa da “Repubblica”, così scriveva: “Fra tutti i popoli che da secoli vi ammirano e vagheggiano, nessuno vi ha amato con il trasporto, l’abnegazione, la sconfinata adorazione di noi tedeschi. I nostri più grandi artisti e poeti sono venuti in pellegrinaggio da voi, e lì si sono persi per sempre”.
Si deve essere perso pure Herr Widmann, se non s’è ancora accorto, a differenza dei suoi stessi connazionali, che dall’epoca di Dante l’Italia richiama a sé il mondo. Si deve essere perso in quel complesso di pregiudizi che ciclicamente riaffiorano e che sempre si ritorcono contro chi li ha evocati. Proviamo a dare una spiegazione sportiva al perpetuo malessere interiore di quei tedeschi che se la prendono con Dante, persino! Vuoi vedere che è l’eterno complesso di Italia-Germania 4 a 3 a Città del Messico, 17 giugno 1970? Con gli importanti aggiornamenti al 1982 (finale mondiale in Spagna Italia-Germania 3-1) fino al 4 luglio 2006: Italia-Germania 2-0 a Dortmund. E poi, proprio a casa loro, Italia campione del mondo.
I dantisti tedeschi si faranno una risata (o, chissà, saranno inorriditi) nell’apprendere che Dante non sarebbe all’altezza di Shakespeare, a prescindere dal paio di secoli -quisquilie- che li separa. Viene prima l’Alighieri, com’è noto. Quasi 250 anni dopo, William ha peraltro riempito di Italia le sue opere.
Ma forse quello che infastidisce un certo modo teutonico di guardare al mondo latino è l’idea della festa, cioè che i figli dei figli di Dante oggi si ricordino del padre della loro lingua e della loro Patria. E lo facciano con uno spirito lieve e sereno, di festa, appunto, come si conviene per i grandi eventi che sono nella memoria profonda dell’identità italiana e universale.
Caro Herr Widmann, faremo festa addirittura tutto l’anno, in Patria e nel mondo. Pronti a festeggiare anche con lei. Almeno fino alla prossima partita di calcio.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma