Per favore con dolcezza: in italiano. Non la Francia o la Spagna, non il Portogallo o la Romania. Siamo l’unico Paese di lingua neolatina che sta rinunciando a tradurre e adattare nella lingua nazionale le espressioni importate dall’inglese. E sono gli stessi inglesi per primi a ridere e a dolersi del “lockdown” per non dire confinamento, del “Recovery Fund” per nascondere i fondi per la ripresa o del “cashless” per restare senza contanti. Non solo ci facciamo male da soli, massacrando la bella lingua -una delle più amate-, con termini del tutto estranei alla nostra fonia e grafia millenarie. Ma lo facciamo pure con parole oscure o dal diverso significato nel mondo anglosassone da cui le prendiamo e ripetiamo con accenti, oltretutto, sbagliati.
“Ho notato che spesso in italiano si ricorre a vocaboli inglesi per esprimere cose brutte”, racconta, un po’ divertita e un po’ dispiaciuta, Amanda Thursfield, nata a Nottingham, Gran Bretagna, oggi direttrice del Cimitero Acattolico di Roma, ma già lettrice della lingua di Shakespeare all’Università di Bologna. E soprattutto in passato braccio culturale e operativo del British Council in Italia per più di dieci anni. “Jobs Act, per esempio, suona meno doloroso, ma è pure sbagliato”, sottolinea l’insegnante. “In Inghilterra sarebbe “Emplyoment Act”. L’altro giorno mi ripetevano “cashback”, io stessa non capivo che fosse. Poi, ho compreso, di nuovo, l’errore. Al supermercato in Inghilterra cashback non significa rimborso, come si pretende qui, ma è una forma di bancomat. Paghi 15 sterline e ne chiedi altre 5 come cashback, cioè per utilizzarle subito altrove, alla fine spendendone 20. Usare la nostra lingua, e usarla male, e mal pronunciandola, solo per far sembrare più bello qualcosa che di solito non lo è, mi dà fastidio e mi sorprende. Se poi penso alla bellezza della lingua italiana e alla varietà di sinonimi davvero non capisco perché ostinarsi al “delivery”, all’”Authority”, al “manager”. Amanda Thursfield così conclude: “It’s ridiculous”.
Il fenomeno dell’itanglish, che oggi dilaga indisturbato, ha rotto una tradizione seguita per secoli, e tuttora rispettata da francesi e spagnoli, portoghesi e romeni con le loro lingue: rendere nella forma italiana, cioè cara al nostro modo di parlare e di scrivere, i vocaboli stranieri, anziché riproporli tali e quali. “Succede per inerzia in confronto alla maggiore reattività dell’orgoglio linguistico della Francia o della Spagna”, spiega il linguista e filologo Luca Serianni, accademico della Crusca e dei Lincei. “E’ il provincialismo di credere che, citando un vocabolo inglese, si è più legati alla modernità o alla moda. Ma è una scelta inutile e controproducente, che spesso finisce per camuffare, in realtà, il messaggio comunicato”.
A quanti italiani, in effetti, e non solo anziani, “Recovery Fund” evoca il ricovero, specie in tempo di pandemia, anziché il recupero, come sarebbe ricorrendo al pane al pane, cioè traducendo il concetto nella nostra lingua? “Sono i parlanti che dovrebbero dare il buon esempio”, conclude il professor Serianni. “In particolare i personaggi pubblici, i conduttori televisivi, le personalità delle istituzioni”.
Anche il professor Gabriele Valle, dalla doppia nazionalità e cultura italo-peruviana, autore del prezioso “Italiano Urgente” (prefazione Tullio De Mauro) con 500 anglicismi tradotti in italiano seguendo e confrontando il modello spagnolo parola per parola, mette sale sulla ferita. “L’itanglish non è inglese né italiano”, afferma. “Italianizzare l’anglicismo vuol dire adeguarlo all’ortografia, accogliere suoni familiari e pronunciabili, ridurre il rischio dell’equivoco e lasciare intatto l’inglese, una lingua mirabile con cui si dovrebbe convivere senza dilapidare il patrimonio spirituale più importante della nazione”. Valle propone che l’italiano segua l’esempio spagnolo. “Messe al confronto le lingue sorelle -dice- l’ortografia italiana detiene il primato della semplicità. Se il sistema fonologico dello spagnolo possiede 24 fonemi, quello dell’italiano ne possiede 30, rappresentati con un numero minore di risorse grafiche. L’ortografia dell’italiano è un prodigio di efficienza. Andrebbe considerata una delle alte espressioni del genio italiano”.
Dunque, adattare i termini inglesi alla lingua di Dante non è complicato né antiquato: è moderno e naturale. Conclude il professore Valle: “Oggi diremmo senza esitazione che “mangiare” e “giardino” sono parole italianissime. Diremmo la stessa cosa di “bottiglia” e “cioccolato”. Non diverso sarebbe il nostro parere su “guerra” e “schiena”. Ma forse qualcuno resterebbe stupito nel sapere che il primo paio di parole arrivò dalla Francia, il secondo dalla Spagna, il terzo dall’area germanica. L’italiano, spontaneamente, foggiava le voci forestiere, le trasformava a modo suo (le “disordinava”, diceva Machiavelli), così che esse, una volta addomesticate, fossero docili al parlare e allo scrivere”.
L’importanza delle contaminazioni, non della sudditanza. La ricchezza delle lingue che da sempre si scambiano pensieri e parole, adattandoli e mai subendoli. L’approccio di tutti i Paesi neolatini senza eccezione: accogliere l’anglicismo e coccolarlo nella propria lingua.
Nel settecentesimo anniversario di Dante è ora di riscoprire l’incanto dell’italiano per farsi capire da tutti, parlando tra futuro e memoria.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma