E così, dopo il “lockdown” e il “recovery fund”, mancavano solo il “cashback” e il “cashless”. Ma lo scempio della lingua italiana -si può giurarlo- non è ancora finito. Siamo l’unico Paese di lingua neolatina che sta rinunciando a rendere nella bellissima e millenaria lingua nazionale le espressioni prese a prestito dall’inglese. Non la Francia, non la Spagna, non il Portogallo che traducono sempre nelle loro lingue i vocaboli proposti dalla lingua globale. Proposti, appunto, ma non imposti da nessuno. Si deve solo al provincialismo e alla sudditanza della classe dirigente (politica, ma purtroppo anche giornalistica, economica e culturale), se solo in Italia abbiamo deciso di censurare e umiliare la nostra lingua amata in tutto il mondo.
Basta lockdown: c’è il confinamento. Al diavolo il recovery fund, l’Europa ci ha già assegnato i fondi di recupero o a scelta (l’italiano dà sempre libertà di scelta), fondi per la ripresa. Che ce ne facciamo del cashback, se disponiamo del rimborso, del denaro di ritorno, dei soldi indietro? Né rischiamo il cashless: siamo già senza contanti.
Per denunciare l’assurdo, non occorre mobilitare le istituzioni preposte (dall’Accademia della Crusca alla Società Dante Alighieri, agli Istituti Italiani di Cultura) a cui, peraltro, non si vuole riconoscere lo stesso ruolo della Real Academia in Spagna e in America latina, ossia in caso di dubbio semantico spiegare la versione più corretta in lingua italiana. Basta confrontare in rete come gli altri rendano nelle loro lingue quel che noi beviamo, ubriacandoci, dall’inglese. Con l’ulteriore affronto -povero Shakespeare- dell’imbarazzante pronuncia. “Recovery fund” in bocca a molti politici diventa un comico “recovery found”, cioè non sanno proprio ciò di cui parlano.
L’indifferenza viene da lontano. Siamo l’unica nazione che da tempo ha denominato “question time” uno degli atti più importanti del suo Parlamento. Senza che nessuno richieda l’ora delle domande.
Dov’è finito il nostro amor proprio? Che aspetta l’intellighenzia italiana a sollevarsi contro l’insopportabile esterofilia tipica di chi, paradossalmente, spesso non parla altre lingue? Chi, infatti, le conosce e le ama, non si pavoneggia in italiano con l’inglese maccheronico.
Qui non si chiede l’autarchia linguistica. Le lingue sono ricche anche perché da secoli vivono di contaminazioni. Qui si chiede semplicemente di usare le parole in italiano ogniqualvolta ciò sia possibile. Si scoprirà che è possibile sempre. Si segua l’esempio moderno di Francia, Spagna e Portogallo. In italiano con dolcezza nel settecentesimo anniversario di Dante: e se partisse un’iniziativa di politici e giornalisti, direttori di giornale e scrittori, cantanti e artisti per porre fine all’abuso avvilente che, oltretutto, danneggia il dovere di comunicare in modo chiaro e comprensibile? Alziamo la voce tutti insieme, noi, gli innamorati della lingua italiana in Italia e nel mondo.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma