Mano nella mano, come fecero il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese François Mitterrand a Verdun il 22 settembre 1984 davanti alle tombe dei soldati, tedeschi e francesi, caduti nella prima guerra mondiale che li aveva visti combattersi. Ma nessuna inimicizia è per sempre, nell’Europa che da settantacinque anni ha scelto il bene supremo della riconciliazione e della pace.
E così, allo stesso modo ieri a Trieste l’italiano Sergio Mattarella e lo sloveno Borut Pahor hanno deposto una corona di fiori alla foiba di Basovizza. E’ il luogo-simbolo che custodisce i resti di una parte, ma la memoria di tutti i quasi ventimila italiani buttati nei profondissimi pozzi -vivi o morti- dai partigiani comunisti di Tito negli ultimi due anni della seconda guerra mondiale per il solo fatto d’essere italiani. Un’orribile pagina di storia che nel nostro Paese è stata ideologicamente cancellata fino al 1991 quando, per la prima volta, un presidente della Repubblica, Cossiga, visitò la foiba di Basovizza. E poi un altro presidente, Scalfaro, la dichiarò “monumento nazionale”.
Adesso e con notevole ritardo anche rispetto al gesto del cancelliere tedesco Willy Brandt che il 7 dicembre 1970 s’inginocchiò, mentre era in visita in Polonia, davanti al memoriale della Shoah, è arrivata anche la prima volta per un presidente dell’ex Jugoslavia: rompere l’assordante silenzio e rendere omaggio agli innocenti italiani uccisi due volte, prima dalla crudeltà e poi dall’oblio. Un oblio che per decenni ha colpito anche i 350 mila istriani, fiumani e dalmati costretti ad abbandonare le loro terre nel frattempo passate all’ex Jugoslavia.
“La storia non si cancella e le esperienze dolorose non si dimenticano, ma il tempo presente e l’avvenire chiamano al senso di responsabilità”, ha detto Mattarella. Che ha firmato un memorandum per dare alla comunità slovena in Italia la proprietà della Casa del popolo, incendiata, proprio cent’anni fa, da squadristi fascisti. A sua volta, Mattarella ha omaggiato con Pahor il cippo considerato dagli sloveni un simbolo di resistenza antifascista.
Nell’Europa dei muri e dello spettro da coronavirus, nell’Europa che si divide per i fondi sulla ripresa e per le migrazioni, non può sfuggire il senso dell’iniziativa oltre le due frontiere: seppellire ogni rancore del passato e imparare a rispettare tutte le memorie. Per camminare, appunto, mano nella mano, verso un futuro di nuove speranze.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi