E alla fine s’è tolto anche la cravatta, il suo inseparabile tratto distintivo dei due anni e quattro mesi a capo dei pentastellati. Da ieri Luigi Di Maio è “solo” ministro degli Esteri, avendo dato le dimissioni dalla guida del movimento. Basta con quel doppio incarico -partito e governo- che con crescente insistenza gli rimproveravano, tra sussurri e grida, soprattutto i suoi.
Ma la rinuncia è sempre frutto di una sconfitta. Questa mossa giusta -la politica estera di una grande nazione come l’Italia non si può fare nei ritagli di tempo-, rischia d’essere intempestiva: Di Maio s’è tolto la cravatta fuori stagione.
Perché i Cinquestelle s’apprestano ad affrontare due prove elettorali decisive per la maggioranza della quale rappresentano l’asse centrale col Pd: l’imminente voto di fine gennaio in Calabria e in particolare l’importantissimo duello politico con Matteo Salvini per interposta Lucia Borgonzoni, la candidata del centrodestra, in Emilia-Romagna.
E a continuazione (il 13 marzo a Torino) già si profilano gli Stati generali del movimento con l’ambizione di rinnovarsi.
Se un generale si presentasse alle sue truppe con un’altra batosta dopo le diverse subìte negli ultimi due anni d’appuntamenti amministrativi in successione, l’esito sarebbe scontato. Ma non è detto che buttare la spugna alla vigilia delle battaglie campali -la reggenza è intanto passata a Vito Crimi-, risolva la vera questione grillina. Che è di una semplicità disarmante: può un movimento nato in alternativa alla “vecchia politica” all’insegna del cambiamento e dell’onestà passare in ventiquattr’ore da un governo con la Lega a uno col Pd senza pagare pegno ideale ed elettorale? E se lo fa, oltretutto digerendo per ragion di governo le scelte che un tempo contestava -dalla Tav in giù-, come può pensare di uscire indenne da simile metamorfosi?
“Basta fuoco amico e pugnalate alle spalle”, s’è sfogato il dimissionario. Anche così confermando il malessere che cova nel movimento per una leadership mai avvertita come tale: il vero capo percepito resta pur sempre l’”Elevato”, come Grillo amò definirsi con la solita ironia.
Intanto, il presidente del Consiglio, Conte, s’è affrettato a precisare: nessuna ripercussione sul governo. E’ questo l’aspetto più insidioso delle dimissioni di Di Maio: che possano diventare l’ennesimo segnale di debolezza per un esecutivo che naviga tra gli scogli.
Pubblicato su Il Giornale di Vicenza