Si sono messi insieme a Roma, ma la crisi del primo anno -primo anno di governo- è scoppiata fra Mosca e Strasburgo. “La fiducia è finita, anche personale”, sbotta un Matteo Salvini mai così perentorio nei confronti dell’alleato. “Noi colpiti alle spalle, se la Lega vuole tornare con Berlusconi, lo dica”, ribatte Luigi Di Maio con altrettanta durezza. Tensione alle stelle, ma le parole non sono (ancora) pietre. Perché i contendenti già s’addossano l’uno con l’altro anche l’eventuale responsabilità di aprire una crisi per ora solo aleggiante. Ed entrambi negano la disponibilità a ribaltoni in Parlamento. E poi il leader del Pd Nicola Zingaretti, unico destinatario di un ipotetico “altro governo”, da tempo ripete che, dopo la caduta della maggioranza giallo-verde da lui sempre più auspicata, ci sono solo le elezioni anticipate. E comunque una rottura rivedrebbe in campo il presidente Sergio Mattarella, che non si farebbe tirare per la giacchetta da nessuno.
Ma perché, allora, volano parole così grosse che in qualunque altro contesto porterebbero dritti all’addio? Se si dichiara che non c’è fiducia fra alleati, come potrebbero gli italiani fidarsi di chi non si fida?
L’origine della scenata è europea. Non la causa, ma il pretesto per rinfacciarsi una complicata convivenza politica, è stato il contrastato voto (sì dei Cinquestelle, no della Lega) per Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea.
Secondo la versione pentastellata, avallata dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l’avvenuta spaccatura fra penta-leghisti rischia di indebolire la posizione dell’Italia al momento della scelta del commissario e soprattutto del dicastero (si spera economico e importante: quello sulla concorrenza) che gli sarà attribuito.
Secondo la versione leghista, quel sostegno dato alla candidata di Merkel-Macron, l’egemonia che proprio la maggioranza gialloverde s’era impegnata a contrastare, non s’aveva proprio da fare.
Ma nell’elenco delle reciproche lagnanze spicca l’inchiesta di Milano sui presunti fondi russi ai leghisti. Salvini, che non è neppure indagato, s’è sentito abbandonato dall’alleato. Al quale rimprovera, oltre agli insulti ricevuti da Grillo e altri, la melina su tasse e infrastrutture, giustizia e autonomia. Pure Di Maio diffida, dicendo che si attacca il M5S solo per fare notizia e “coprire il caso dei fondi russi”.
Ma l’Italia non può restare in panne. O la crisi o la pace. Il resto è rissa.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi