Si rassegnino, i fantasiosi parolieri Luigi Di Maio e Matteo Salvini: anche nell’era dei proclami tramite Facebook e delle polemiche a colpi di tweet, le decisioni del governo non si prendono nell’assemblea virtuale dei social, ma nella formale riunione del Consiglio dei ministri. E quella di ieri era molto attesa dopo giorni di scontri quasi su tutto, e al massimo del volume, fra i leader dei Cinquestelle e della Lega.
Attesa soprattutto dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha sfidato il sottosegretario leghista, Giancarlo Giorgetti, a ripetere nella sede preposta di Palazzo Chigi l’accusa, fatta alla stampa, di non essere più una personalità di garanzia, bensì “un’espressione dei Cinquestelle”. Conte non ci sta e ammonisce: “Quando la dialettica trascende fino a mettere in dubbio l’imparzialità del premier, è gravissimo”. Della serie, me lo dica di persona, se ne ha il coraggio istituzionale. “Ho piena fiducia in Conte”, prova a correggere la rotta Salvini, mentre anche Di Maio rilascia dichiarazioni più accomodanti.
E forse proprio per scoraggiare la resa dei conti che, nell’ora della verità, neanche i due contendenti sembrano voler perseguire fino alle estreme conseguenze -cioè mettendo a rischio la vita dell’esecutivo-, ecco che l’incontro del governo, descritto come “molto animato”, è convocato in due tempi con pausa, come in una partita di calcio, fra il primo e il secondo. L’obiettivo è esaminare fra diversi temi, comprese le richieste d’autonomia di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, due decreti-legge, uno molto caro a Salvini, l’altro a Di Maio. Nel caso leghista si tratta del testo bis sulla sicurezza che, tenendo conto delle obiezioni pentastellate, istituisce un fondo per i rimpatri, la confisca delle navi con più di cento migranti e sanzioni fino a 50 mila euro per il comandante, l’armatore e il proprietario. Ma non mancherebbero criticità sul provvedimento segnalate dal Quirinale.
Nel secondo, la risposta cinquestelle è riassunta in un testo che assegna un miliardo a sostegno delle famiglie, “e non si tocca”, avverte subito Di Maio, che vuole coccolare il ceto medio.
Grande tensione, ma a sei giorni dal voto europeo neanche i due verbosi kamikaze sembrano pronti a immolarsi, e a immolare la loro pur strana maggioranza, senza ascoltare il giudizio elettorale degli italiani sull’esperienza gialloverde. Perché si vota per Strasburgo, ma l’effetto rimbomberà a Roma.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi