Non c’erano indicazioni per arrivare alla sua bottega di campagna. Gli avventori chiedevano dove poter comprare da mangiare e da bere, e i paesani dicevano di proseguire il cammino dritti fino a imbattersi “donde vive el de Pinerol”, dove vive quello di Pinerolo. Si riferivano a un italiano, Giovan Battista Crosa, subito ribattezzato “Juan Bautista”. Il suo podere stava a una decina di chilometri da Montevideo, capitale dell’Uruguay. Era il più importante dell’abitato. Correva l’anno 1765.
Ma in poco tempo la voce di popolo -“el de Pinerol”- si trasforma in un toponimo unico in tutto il Sud America: “Peñarol”. Così fu denominato il luogo in ricordo del piemontese venuto da lontano, figlio di un medico anche lui italiano. Quel luogo di riconoscenza, un secolo dopo avrebbe dato i natali alla squadra di calcio tra le più titolate al mondo: il Club Atlético Peñarol. Le centoventi coppe includono ben tre Intercontinentali, cinque Libertadores, cioè la Coppa dei Campioni dell’America latina, e addirittura cinquantuno campionati nazionali vinti, compreso l’ultimo nel 2017. Il blasonato Peñarol è stato proclamato “campeón del siglo”, campione del ventesimo secolo per l’America, dalla Federazione Internazionale di storia e statistica del calcio riconosciuta dalla Fifa. Campeón del Siglo è il nome attribuito al suo nuovo stadio per ricordare agli avversari dove s’apprestano a entrare: in un’arena gloriosa e grintosa, la proverbiale “garra uruguaya”. Qui si vince o si vince. Qui si fa la storia. Una storia ricca di italianità.
Il romanzo della squadra-principe del Novecento che evoca l’Italia fin dal nome di Pinerolo, e la cui leggenda nulla ha da invidiare alle imprese del Real, della Juve o del Manchester United (il Peñarol è fra le sole otto squadre del pianeta ad aver fatto tris due volte: campione della nazione, del continente e del mondo), inizia con una poesia: “Sarai eterno come il tempo e fiorirai in ogni primavera”. E’ l’equivalente del “You’ll Never Walk Alone”, celebre inno del Liverpool. Un motto sudamericano associato agli inconfondibili colori gialloneri a strisce verticali della maglietta e ispirato a un fiore alto e maestoso: il girasole. “Peñarol, tu nombre brilla igual que el sol”, il tuo nome brilla come il sole.
Gialloneri, dunque, perché nel 1869 una società di Londra aveva acquisito le ferrovie uruguaiane. La compagnia aveva decentrato officine e depositi nel paesino Peñarol. E bisognava dare agli operai, ai dipendenti e alle loro famiglie -molte delle quali italiane-, l’opportunità dello svago sportivo. Tiravano di pallone per strada influenzati dal giallo e nero che dominava i colori della vicina stazione: ecco l’emblema.
Gli eccentrici inglesi pensarono bene di chiamare Curcc la loro intuizione (Central Uruguay Railway Cricket Club). L’iniziativa fu presa dall’ingegner Roland Moor e dall’amministratore Frank Henderson alle 8 del mattino del 28 settembre 1891. Proprio in questi giorni il club celebra con maratone, feste e birichinate su Facebook i suoi 127 anni dalla fondazione. Ma l’impronunciabile Curcc delle origini il 13 dicembre 1913 divenne per sempre Peñarol. Ai posteri sarebbe, perciò, passato il riconoscimento a Giovan Battista Crosa, “el de Pinerol”.
Fin da subito la creatura inglese s’incrociò con la storia della comunità italiana che, con quella spagnola, si contende l’anima uruguaiana metà per ciascuna. Se per tradizione gli oriundi italiani tifavano Peñarol e alle elezioni votavano per i riformisti Colorados, gli oriundi spagnoli sostenevano i rivali del Nacional e la politica dei Blancos, i nazionalisti. Le tradizioni cambiano e si mescolano negli anni, ma non mentono: degli ultimi nove presidenti onorari del club, otto portano cognome italiano. Compreso l’attuale Julio María Sanguinetti, oriundo ligure e per due volte anche presidente della Repubblica. Ancora oggi, ottantaduenne, si mischia fra i tifosi a incitare “Peñarol”. Alcuni dei loro canti ricordano “i nonni che arrivano nelle stive dei bastimenti”, “i tortellini della signora Maria”, perfino l’”Italia dantesca”. “Manyas” si fanno orgogliosamente chiamare i simpatizzanti e non solo la curva, avendo spagnolizzato il “mangia spaghetti” con cui le malelingue del Nacional credevano di stuzzicare i loro avversari: l’eterna sfida sulle sponde del Río de la Plata.
Ma sui calciatori del Peñarol, grande fucina per la Celeste, c’è poco da scherzare. Gli oriundi Alcides Ghiggia e Juan Alberto Schiaffino fecero i due gol del “Maracanazo” in Brasile nel 1950, giocando poi, rispettivamente, anche nella Roma e nel Milan, ed entrambi pure nella Nazionale azzurra. Il cileno Elías Ricardo Figueroa, ex difensore di rara eleganza, fu incluso da Pelé nella lista Fifa-100 dei più bravi. E poi il mito di Obdulio Varela, “el negro jefe” come lo chiamavano, il capo nero che fu anche il capitano della Nazionale a Maracanà. E il portiere Ladislao Mazurkiewicz, detto el chiquito, l’idolo Pedro Virgilio Rocha, i Forlán padre e figlio, l’ala Abbadie (giocò pure nel Genoa), Fernando Morena, il miglior marcatore di sempre: 230 reti.
La squadra unica per titoli al mondo, profuma di Italia. “Eterna como el tiempo”. E fiorisce in ogni primavera, dall’altra parte dell’Oceano.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma