Aveva solo quattordici anni ed era già un promessa dell’arrampicata sportiva. Igor May -la sua famiglia ha acconsentito di diffonderne il nome per esortare tutti i genitori a restare a fianco dei loro figli-, è stato trovato morto nella cameretta di casa, giovedì scorso a Milano. Agghiacciante è l’ipotesi che fanno gli investigatori: il ragazzo si sarebbe ucciso, impiccandosi con una corda da roccia a un letto a castello, dopo aver visto sul web un gioco folle chiamato “blackout”.
E’ una pratica di auto-soffocamento, che induce gli adolescenti a una sfida allucinante: fare a meno dell’ossigeno per periodi sempre più lunghi fino a svenire, per poi riprendere coscienza di sé. Ma il rischio estremo fra la vita e la morte, cioè il presunto e macabro fascino che attira, pare, molti ragazzini, stavolta è finito male, malissimo.
“Parlavamo di tutto, di alcol, di droga, di motorini, di salti pericolosi, ma non di questo, che era al di fuori della nostra immaginazione”, racconta il padre, distrutto. Non, dunque, una famiglia indifferente o assente, come purtroppo ce ne sono tante, rispetto alla crescita, alle compagnie, alle insidie per i più giovani. Al contrario, un padre pronto all’affettuoso e non facile confronto con chi “non si sente più bambino”, per parafrasare un tenero motivo cantato da Celentano.
Ma quanti sono le mamme e i papà capaci di spiegare che cos’è il cosiddetto “dark web”, cioè il lato oscuro della Rete? Di districarsi, anche tecnicamente, nei meandri più profondi e pericolosi di internet?
E chi c’è dietro al gioco mortale?, si chiede adesso la Procura.
L’ipotesi di istigazione al suicidio tramite web riapre, così, una discussione mai chiusa: che fare per evitare al più straordinario strumento di comunicazione, internet, di diventare una fogna del male. Con l’educazione, l’istruzione e soprattutto l’amore molto possono e debbono fare la famiglia, la scuola e gli amici.
Ma una cosa è mettere in guardia e accompagnare con garbo il percorso mentale e sentimentale di ragazzi che maturano. Altro è misurarsi con la personalità in formazione dei nostri figli. Specie quando li vediamo così fragili e soli, come sono i figli dell’era digitale.
Ecco, allora, qual è forse la maggiore difficoltà per ormai diverse generazioni di padri che non sono, a differenza dei loro figli, “nativi” digitali: l’impossibilità di condividere fino in fondo le grandi virtù e i gravi rischi della nuova “civiltà” di un mondo a cui non appartengono.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi