In tutta Europa, è vero, la sinistra se la passa male. Ma perfino in Germania, l’ultima della serie dove i socialdemocratici della Spd ci hanno messo cinque mesi per bere l’amaro calice e tornare in grande coalizione con la Cdu, il punto di vista progressista esiste e resiste.
Non si capisce se si possa dire altrettanto nell’Italia fresca di urne, ora che il Pd vive in mezzo al guado. Ha un leader che si è dimesso, ma ancora no. Ha un gruppo dirigente in buona parte bocciato nell’uninominale, ma ripescato col proporzionale: e i pochi eletti al maggioritario nell’un tempo o forse tuttora partito del lavoro spesso provengono dai quartieri più ricchi e benestanti.
Alla sfida del “dimissionante” -nuova categoria dello spirito- Renzi, che adesso vuole contare in direzione gli amici e i nemici dei Cinque Stelle, ha subito risposto il ministro Calenda, iscrivendosi al partito e di fatto candidandosi a competitore. O forse no. Ma Calenda non è una tuta blu e neppure un colletto bianco: è un classico borghese. “La guida del partito non è un concorso di bellezza”, già lo fulmina Chiamparino, a sua volta pronto per la corsa alla segreteria all’insegna del “nessun tabù” nel dialogo coi grillini. Sullo sfondo del tira e molla si susseguono gli immancabili appelli all’unità e le dimissioni dagli incarichi da parte dei delusi, cioè dei perdenti al voto del 4 marzo.
Al di là degli inevitabili conflitti personali e politici (“guai ai vinti”, ammonivano non per caso i saggi antichi), resta l’interrogativo di fondo: può un grande Paese fare a meno di un grande partito a sinistra? Naturalmente no. Ma quel che il Pd vuole essere o diventare, anche in questa legislatura dove nessuno può fare a meno di nessuno, non si sa. Anziché contare, preferiscono il regolamento di conti. E’ più chic.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi