Come nei migliori sodalizi, il divorzio tra Maroni e Salvini si consuma all’insegna dell’ira. “Con me ha usato metodi stalinisti”, accusa il presidente uscente e non più rientrante della Regione Lombardia. “Uso il mio tempo per lavorare, le polemiche le lascio agli altri”, gli risponde, senza neanche nominarlo, il leader della Lega condito in salsa sovietica. In apparenza il litigio può sembrare la delusione tra due innamorati della stessa causa. Alla quale Maroni pur assicura l’impegno di “leale sostegno al segretario come candidato premier”.
Ma al di là delle promesse d’ufficio e delle ragioni di carattere personale e di caratteri molto diversi tra i contendenti -ragioni che hanno anche indotto Maroni a rinunciare a tentare il bis come governatore-, la furiosa frattura certifica la svolta della Lega non più Nord. Tanto era uomo della vecchia guardia il primo, quanto è leader della rottura il secondo. Rottura con l’idea incarnata per un ventennio dal fondatore -l’Umberto Bossi ormai fuori gioco-, che il partito al mito del federalismo e al rito dell’ampolla sul fiume Po dovesse ispirarsi. Dunque, un movimento del territorio, sia pure quello economicamente più dinamico d’Italia, estendendosi fra la Lombardia e il Veneto. Una spina settentrionale nel fianco della coalizione di centro-destra, per condizionarla nelle scelte politiche ed economiche.
Invece, con l’irruenza del quarantenne che cavalca il malessere populista, Salvini ha trasformato il partito. Ha fatto della Lega “per l’indipendenza della Padania”, l’originaria ragione sociale, quasi il suo opposto, una sorta di Lega Italia, pronta cioè a candidarsi perfino nell’un tempo sbeffeggiato Mezzogiorno. Al federalismo è subentrato il sovranismo. Alla prospettiva di stare non al fianco, ma ai fianchi di Berlusconi, l’ambizione di prendergli il posto. Il disegno di Salvini è arrivare a Palazzo Chigi: inevitabile che prima o poi si sarebbe scontrato con l’uomo-simbolo del Pirellone.
Del resto, Salvini è già in competizione con l’alleato Cavaliere. Lo testimonia la polemica leghista sull’obbligo dei vaccini o l’annunciata abolizione della legge Fornero, subito smentite da Berlusconi. La Lega vuole dare le carte e non più riceverle, come accadeva prima con Bossi e poi con Maroni, la rinnovata continuità. Salvini non “continua”: a costo dei toni aggressivi usati e delle tesi molto controverse sbandierate, lui punta a vincere la partita, e non solo a partecipare.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi