I candidati non sono ancora ai nastri di partenza, ma già si compiono i primi riti della campagna elettorale. Ad inaugurarli è la Commissione parlamentare di Vigilanza Rai, che ha elaborato il suo solito regolamento sulla par condicio, destinato a trasformare i giornalisti in farmacisti col bilancino delle comparsate: un tanto al minuto per dare o togliere la parola al contendente di turno, assicurando a tutti parità di condizioni e di accesso alla tribuna. L’orologio condizionerà il contenuto: al ritmo del tic-tac si va tutti verso il ballo del 4 marzo.
Ma nell’epoca dei tweet si può seriamente credere che la promessa di un aspirante presidente del Consiglio cronometrata da Vespa o da Fazio (i pentastellati hanno chiesto, invano, di escludere i loro programmi dalla disputa elettorale), farà la differenza tra chi vince e chi perde? Nell’era in cui cittadini molto più consapevoli e informati di un tempo decidono con sempre maggiore libertà, davvero si pensa che legioni di telespettatori attendano, invece, trepidanti il talk show al cloroformio (già non si sopporta più quello da corrida) per cambiare la loro sovrana volontà nel segreto dell’urna? Non occorre ricordare che in tutte le più recenti sfide elettorali negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e ovunque i social l’hanno fatta da padrone. Né far notare che in Italia non vale più il vecchio adagio “l’ha detto la televisione”, così in voga negli anni Sessanta. Riguardava il pubblico di una generazione pre-televisiva e poco smaliziata: figurarsi se gli italiani si fanno oggi impressionare da parole che si perdono nell’etere.
Del resto, l’istituzione stessa della par condicio, voluta per evitare che il candidato e proprietario dell’impero televisivo privato si avvantaggiasse rispetto ai suoi concorrenti, non ha impedito che il medesimo, cioè Silvio Berlusconi, vincesse e perdesse a rotazione. Con ciò confermando che le apparizioni televisive sua e dei suoi competitori furono considerate alla stregua di un semplice atto di propaganda politica, mai un giudizio di Dio.
Tutto cambia. Al giornalismo prigioniero delle lancette d’orologio è persino subentrata la comunicazione fai da te: il Trump (o il Macron o la Merkel) che se le suonano e se le cantano a colpi di tweet, senza che il giornalista possa rispondere o interloquire come in un’intervista. Viviamo al tempo del tweet contro tweet. Ma qui c’è ancora qualcuno convinto che le elezioni si vincano con la clessidra in mano.
Pubblicato su Il Giornale di Vicenza