Esattamente quarantacinque anni fa, il 17 giugno 1972, un addetto alla sicurezza che lavorava negli uffici del “Watergate Hotel” a Washington dava inizio, senza saperlo, al più grande scandalo politico negli Stati Uniti. L’inconsapevole aveva notato uno strano nastro adesivo su una porta nel passaggio fra le scale e un parcheggio sotterraneo. Immaginando che fosse stato dimenticato da chi faceva le pulizie, lo tolse. Eppure, rifacendo il giro di vigilanza poche ore dopo, s’accorse che una manina aveva rimesso un altro nastro nello stesso posto. Il sorvegliante chiamò la polizia. E così, investigando su ciò che si sarebbe scoperto che era -anche grazie alla rigorosa inchiesta giornalistica di Bob Woodward e Carl Bernstein- un’intercettazione illegale a danno dei Democratici, s’arrivò alla prospettiva di messa in stato d’accusa del presidente Richard Nixon e alle sue dimissioni per evitarla. Non si perdonava all’inquilino della Casa Bianca, e al suo staff, d’aver negato il coinvolgimento di persone legate ai Repubblicani nella brutta storia di spionaggio, dunque d’aver mentito. Comportamento che in America non rappresenta una marachella, ma un reato grave: ostruisce la ricerca della verità da parte della giustizia. Così fu interpretato anche il pervicace rifiuto di Nixon di far ascoltare le sue conversazioni nello Studio Ovale. Quando, alla fine, consegnò dei nastri al giudice, quei colloqui anche volgari lo condannarono politicamente.
Dunque, suggestione a parte, il celebre “Watergate” ha poco da spartire con l’attuale Russiagate che vede al centro Donald Trump. Anche stavolta, certo, Robert Mueller, il procuratore che indaga, valuterebbe l’ipotesi di un presunto ostacolo alla giustizia -secondo le anticipazioni del Washington Post- per il ruolo di uomini della cerchia di Trump. “La caccia alle streghe più grande nella storia degli Stati Uniti”, è la furiosa reazione del presidente. Ma, a prescindere da come finirà la vicenda sul ruolo della Russia nelle elezioni del 2016 col trionfo di Trump, i fatti sono diversi. E l’opinione pubblica ha maggiori strumenti d’informazione, rispetto a quarant’anni fa, per farsi un’idea del caso sulla base di accertamenti “senza guardare in faccia nessuno”, com’è abitudine da quelle parti. Specie dopo il siluramento del direttore dell’Fbi, James Comey che indagava sul Russiagate. Mentire oggi sarebbe più difficile per chiunque occupi posizioni di potere in una nazione, oltretutto, dove gli “Intoccabili” esistono solo nei film.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi