La febbre del sabato sera, come il celebre film con John Travolta nel 1977 aveva battezzato la voglia sfrenata di divertirsi ballando, adesso è salita a quaranta. Dal ballo s’è passato allo sballo, dopo il secondo caso di un ragazzo che è morto all’alba, nel Salento, sentendosi male all’uscita di una famosa discoteca. Lorenzo Toma, così si chiamava, aveva solo diciannove anni e l’inchiesta dirà che cosa ha causato l’improvviso e ancora misterioso malore (gli amici avrebbero riferito che ha bevuto qualcosa e s’è sentito mancare). Ma appena venti giorni fa un altro giovane neppure maggiorenne, il sedicenne Lamberto Lucaccioni, aveva perso la vita a Riccione per eccesso di ecstasy, droga micidiale, in un altro e altrettanto noto locale che il prefetto ha poi deciso di chiudere per quattro mesi. Due indizi, diceva Montanelli, sono solo due indizi. Ma non è proprio il caso di attendere il terzo indizio -come lui ammoniva- per arrivare alla prova. La prova che non si può morire a neanche vent’anni dopo una serata in discoteca. E allora: di chi sono le responsabilità di una generazione che in piccola, ma significativa parte sta bruciando la sua esistenza? Della famiglia prima distratta e poi distrutta? Della società troppo indifferente al pericolo degli stupefacenti? Della mancanza di veri controlli sia nelle discoteche, sia da parte delle forze dell’ordine? Della personalità del singolo ragazzo, che magari fa quel che non dovrebbe fare solo per non sfigurare col “branco” degli amici, come capita quando si è giovani tra giovani? Purtroppo non c’è una sola e facile colpa da individuare per lavare le coscienze e sbrigare subito la tragica pratica. C’è un insieme di cattive ragioni che però, se affrontate con serietà, potrebbero tutte contribuire ad abbassare la febbre del sabato sera. E far tornare la discoteca il ritrovo per sentirsi liberi e felici. Perché non è certo la musica a far sballare i ragazzi. Tuttavia, chi gestisce i locali non può chiudere gli occhi: denunci alla polizia se, quando e dove si spacciano dosi di morte, cioè di droga. E collaborino anche i genitori, che non è affatto giusto indicare come unici o principali colpevoli, ma che dovrebbero sempre informarsi su chi frequentano i propri figli e che cosa fanno. Dialogare in famiglia non è solo bello: è un dovere dei padri e delle madri per cercare di capire in tempo le difficoltà e i sogni dei propri ragazzi. Così come molto di più possono fare le istituzioni, garantendo maggiore sicurezza con controlli a sorpresa e spiegando che la droga è una porcheria. E che può uccidere.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi