Passano gli anni, i governi e le legislature, ma non c’è niente da fare: l’abitudine dei politici di rifare la tela della scuola, disfacendola, è più forte di loro. Poco importa che si tratti dell’istituzione di tutti e più importante di tutte: forgia i cittadini di oggi e di domani. Soprattutto grazie all’impegno di autentici artigiani del mestiere, quali sono rimasti gli insegnanti con pochi soldi in tasca e strutture arcaiche davanti alla lavagna, ma molti di loro ancora con passione, capacità e volontà di fornire ai ragazzi le conoscenze apprese da altri. Di generazione in generazione va così di pari passo da una parte la trasmissione del sapere come una sostanza della grande tradizione italiana, dall’altra la riforma della scuola come un’apparenza della piccola rivoluzione politica. Ma a leggere le novità contenute nella bozza delle legge-delega si scopre che dalle elementari alle medie spariscono -un’altra volta- i voti per far posto alle lettere dell’alfabeto e ai giudizi. Non più “cinque” -orrore!-, all’alunno pur insufficiente. Ora comparirà una “d”. Oppure una “u”, chissà, se per ironico dissenso un istituto decidesse di partire dalla fine, anziché dall’inizio. Niente più bocciature, per carità, previste “solamente in casi eccezionali”.
Le prove Invalsi, poi, quelle che si fanno per tastare il livello della scuola, saranno integrate con un questionario in inglese. Così, coi quiz, imparerà la lingua di Shakespeare chi non sempre conosce bene quella di Dante. Per evitare i sospetti che al Sud i cento e lode abbondino, mentre al Nord scarseggino, ecco che arriva un nuovo sistema di conteggio del voto di maturità. E commissioni d’esame a prevalenza membri interni, o forse no. Grande è la confusione sotto il cielo dell’Istruzione, ma chiaro l’obiettivo: trasformare la “buona scuola” in una scuola buona e buonista, dove l’impegno della classe, il merito dei più bravi, il talento dei singoli nelle materie da ciascuno preferite dipendano più dalla lotteria dei numeri che dal percorso formativo. Ma sì, diamogli una bella “d”: suona meglio di “cinque”. Chi se ne importa che la scuola serva, al contrario, per aiutare tutti a crescere e migliorarsi. Per premiare chi s’impegna. Per non lasciare nessuno appeso alla “d”. Chi se ne importa se, adottando tali criteri, copiamo il peggio che viene dall’estero, noi che abbiamo una Scuola italiana eccellente dall’asilo alla laurea. Una Scuola da “a”, per farci capire dai nuovi filosofi dell’abbecedario.
Pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi