Garibaldi e Artigas si chiamavano con lo stesso nome: José o Giuseppe che dir si voglia. Il primo arrivò in Uruguay vent’anni dopo l’esilio del secondo in Paraguay e ne preservò il sogno di indipendenza. Garibaldi “el libertador” raccolse, senza saperlo, la fiaccola di Artigas, “el prócer”: il liberatore e l’illustrissimo. L’Uruguay italiano e l’Italia uruguaya nascono in quel preciso momento, negli anni Quaranta dell’Ottocento, per mai più dividersi, nonostante l’Atlantico di mezzo. Nascono, l’un Paese mescolato nell’altro, nella straordinaria continuità di José G. Artigas e Giuseppe Garibaldi, due uomini che non si sono mai incontrati, ma che si sarebbero piaciuti. Disinteressati entrambi, carismatici, popolari. Pronti a sacrificare la loro vita per gli altri, perché credevano. Credevano che le persone e i popoli hanno il diritto alla felicità. Significa non avere padroni in casa propria e vivere con la dignità che solo la legge può assicurare a tutti e a ciascuno. “Con libertad ni ofendo ni temo”, diceva il preveggente Artigas. E Garibaldi, vent’anni dopo, lo prendeva alla lettera, guidando la Legione Italiana a Salto nella battaglia di San Antonio che salvò l’indipendenza dell’allora conteso Uruguay dalle mire di un tiranno argentino, Juan Manuel de Rosas. Accadeva il 6 febbraio 1846, esattamente 170 anni fa. Ed esattamente 70 anni compie il 2 giugno 2016 la Repubblica italiana: persino negli anniversari che contano, uruguaiani e italiani sono incastrati fra loro, come se la storia cominciasse da una parte e finisse nell’altra. Un mosaico sull’Oceano.
Anche la storia sportiva è un fiume tra due ponti, Roma e Montevideo. L’Italia vinse il suo primo Mondiale di calcio nel 1934. Ma il primo Mondiale di tutti si svolse nel 1930 in Uruguay, che lo vinse. E la circostanza che la maggior parte dei calciatori uruguaiani in Europa giochi soprattutto in Italia oppure che la più grande squadra dell’Uruguay, il Peñarol campeón del siglo, discenda da un’italianissima tradizione venuta dal lontano Pinerolo, è solo la conferma che il destino non mente: gli italiani che si specchiano sul Río de la Plata, dalla parte di qua, della meravigliosa Punta del Este, diventano degli uruguaiani particolari. Gli uruguaiani che si riflettono sul Mediterraneo, sempre dalla parte di qua, del lungo e magnifico Stivale calzato nel mare, diventano degli italiani speciali.
Né vale la pena ricordare del tango, che tracima di musica, poesia e arte italiane. L’opera lirica, che è la musica italiana per eccellenza nel mondo, ha partorito melodie nuove e moderne, per quel tempo, anche in Sudamerica. Sempre a partire dalla voce, dalla voce del più bravo e acclamato di tutti, Carlos Gardel. Se Gardel era uruguaiano -e lo era, di Tacuarembó-, allora nelle sue vene scorreva non sangue rosso, ma rosso, bianco e verde: Oliva-Sghirla era l’inconfondibile cognome della mamma. Inconfondibile, ma impronunciabile, perché all’epoca e per molti anni la misteriosa vicenda della nascita di Gardel non si poteva né si doveva raccontare. Silenzio, qui si canta: la voce universale di Carlos Gardel.
Serve, dunque, riferire che quasi la metà degli uruguaiani ha ascendenze italiane da qualche ramo familiare? Bisogna forse ripetere che Alcides Ghiggia e Pepe Schiaffino furono idoli della Celeste e degli Azzurri negli anni Cinquanta, perfetti prototipi degli uruguaiani-italiani con due cuori e due Nazionali capaci di far sognare la gente?
E’ proprio necessario ribadire che la pasta italiana e la carne uruguaya sono il primo e secondo più buoni del mondo? (di nuovo l’un piatto che s’accompagna all’altro e insieme danno il piacere dello stare a tavola, altra tradizione italico-uruguaiana).
Si farebbe prima a citare in che cosa l’Italia e l’Uruguay non si somiglino, in che cosa siano radicalmente diversi. Ma non riesco a trovare l’eccezione, perché financo la bella lingua italiana e l’incisiva lingua spagnola derivano dalla stessa madre latina. Dante e Cervantes, che nipoti ci ha donato Virgilio.
Eppure, una cosa c’è, ho trovato ciò che le nazioni-sorelle non condividono: il dulce de leche. Agli italiani non piace. Agli italiani piace la nutella, che invece agli uruguaiani piace di meno.
Ma la dolce vita, cioè la consapevolezza che la vita sia il bene più prezioso sulla Terra, e perciò da difendere a ogni costo -rieccoli, Artigas e Garibaldi-, la dolce vita quella sì che è uguale per tutti.
Pubblicato su La Gente d’Italia, quotidiano delle Americhe, in occasione dei settant’anni della Repubblica Italiana celebrati nel Parlamento dell’Uruguay convocato in seduta straordinaria