L’ambasciatore Sergio Vento, nato a Roma sessantanove anni fa, è docente universitario e consulente di Relazioni Internazionali. Già consigliere diplomatico dei presidenti del Consiglio, Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini e rappresentante italiano in due vertici del G7, Vento è stato ambasciatore negli Stati Uniti per sei anni di fila a partire dal 2000; prima a New York presso le Nazioni Unite e poi a Washington. In precedenza era stato a lungo ambasciatore a Parigi, in Jugoslavia e vice-rappresentante permanente presso l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo).
Per sei anni (fine 1999-2005) lei è stato ambasciatore dell’Italia prima a New York presso le Nazioni Unite e poi a Washington. Che cosa s’impara dell’America vista da vicinissimo?
“Che è un Paese di grande complessità, pur avendo una storia relativamente breve ma molto intensa alle spalle. Duecentotrent’anni di indipendenza americana sono stati caratterizzati sempre dalla crescita della dimensione territoriale, passando dalle iniziali tredici colonie ex inglesi della costa atlantica agli attuali cinquanta Stati”.
S’impara a riconoscere l’orizzonte?
“Con tutto quel che comporta: per esempio i fenomeni di popolamento, di immigrazione in questa enorme estensione geografica. Ma s’impara soprattutto a conoscere la differenza fra gli Stati Uniti e l’Europa. A prima vista si potrebbe dire che gli americani siano degli europei in metamorfosi. Gente che, attraverso generazioni, sfuggendo alla miseria, alle guerre, alle persecuzioni religiose e razziali -dai padri pellegrini del Mayflower sino a purtroppo l’anti-semitismo- del Vecchio Continente, sono diventati americani”.
Diventare americani o sentirsi americani, che conta di più?
“A me piace definire gli Stati Uniti il Paese delle quattro effe: flag, faith, firm e food, cioè la nazione della bandiera, della fede, dell’idea di impresa e della capacità di rispondere alle necessità alimentari di base degli europei. Questo conta. E questo ha trovato una significativa espressione nel corso del Ventesimo secolo con la partecipazione americana alle due guerre mondiali e fratricide per gli europei. Una partecipazione, si badi, sempre tardiva e accompagnata da tensioni fra isolazionisti e interventisti. Ma decisiva per consentire agli americani di affermarsi come superpotenza”.
E poi la guerra fredda…
“La guerra non guerreggiata, la terza che gli americani hanno sentito d’avere vinto di fronte all’espansionismo totalitario del comunismo e al crollo dell’impero sovietico nel 1991. Dopo che l’America aveva garantito all’Occidente la ricostruzione e la ripresa economica nella libertà e nella pace”.
Entriamo nel terreno diplomatico della superpotenza: qual è la differenza fra trattare con la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato o il Congresso?
“Con la Casa Bianca prevale il rapporto politico, si ha il polso dell’amministrazione, mentre col Dipartimento di Stato c’è più spazio per l’azione diplomatica anche nel linguaggio delle cose dette e non dette. Col Congresso e i suoi due rami del Senato e della Camera dei Rappresentanti il discorso è complicato. Il Congresso riflette le sensibilità, gli umori e spesso i malumori dei cinquanta Stati dell’Unione. Malumori che si rovesciano sulla capitale, avvertita come lontana e “politicante”. A Washington, questa verdeggiante città dagli edifici neoclassici che s’ispirano alla tradizione addirittura romana (“il Campidoglio”), occorre molta pazienza. Ma è il Congresso che rispecchia l’America profonda degli interessi veri”.
Sta dicendo che per cogliere lo spirito americano bisogna vivere non a New York ma a Washington?
“New York è la porta dell’America e una finestra sul mondo. Ma non è l’America. E gli europei che lo credono, sbagliano”.
Come si tratta d’abitudine: al telefono, giocando a golf o a tavola dopo il caffè?
“A tavola dopo il caffè”.
Il successo politico-diplomatico più importante che l’Italia deve a un buon caffè?
“Forse la trattativa per convincere gli americani ad acquistare gli elicotteri Agusta-Westland che a partire dal 2009 trasporteranno il presidente degli Stati Uniti. Una vittoria straordinaria per il nostro Paese, ottenuta insieme col nostro partner industriale e politico della Gran Bretagna, battendo la concorrenza accanita di un grande elicotterista americano”.
Di recente il presidente Gorge W. Bush è venuto a Roma. Ma i politici americani che idea hanno della politica italiana?
“Purtroppo il peso della storia non si cancella con facilità, come a volte noi ci illudiamo che accada. La politica americana non ha la memoria corta. Nella loro ottica storica -e non alludo soltanto ai “wasp” anglosassoni-, la classe politica pre-fascista del nostro Paese era vista come quella che ha scaricato dall’altra parte dell’Atlantico, mettendoli nella stiva dei bastimenti con la valigia di cartone e il passaporto rosso in mano, un terzo della popolazione italiana. A differenza di quell’”emigrazione ordinata” tipica dei tedeschi e dei Paesi nordici. Quanto al fascismo, a parte il momento negli anni Venti in cui fu accolto con favore negli Usa perché aveva riportato un apparente livello di ordine, è stato l’alleato della Germania nazista e delle guerre d’aggressione contro cui gli americani si sono sacrificati”.
La Repubblica come viene giudicata nei suoi sessant’anni?
“Sempre nell’ottica americana, il dopoguerra italiano è stato caratterizzato non solo da una cinquantina di governi in cinquant’anni, ma pure, agli inizi e per lungo tempo, dalla forza dei movimenti della sinistra estrema e dall’avvertita minaccia comunista. Non a caso da parte degli Stati Uniti si è cercato di organizzare un sostegno alle forze democratiche attraverso la ricostruzione. In sostanza, la classe politica italiana generalmente appare, nella valutazione americana, come espressione di un Paese dalla forte identità nella società ma non nelle istituzioni. Non è un giudizio immutabile e certo non manca apprezzamento per alcune nostre personalità; così come del resto non mancano governi italiani che sono durati a lungo negli anni Ottanta o più recentemente”.
E il giudizio dell’americano medio qual è?
“La valutazione tradizionale ancora risente degli stereotipi e dei luoghi comuni su quest’Italia un po’ precaria e spesso vagamente ingiusta nei confronti dei suoi cittadini. Gli americani sono molto sensibili a un discorso di eguaglianza di diritti e di opportunità, al rispetto della legge, cose che a volte, e magari a torto, ritengono non appartenere alla cultura politica del nostro Paese. Negli ultimi quindici anni è cambiato il giudizio sull’Italia dello stile, del design, della moda, dell’abbigliamento, della cucina, della Ferrari, del calcio e via dicendo. Anche le bellezze naturali e artistiche del nostro Paese hanno conquistato l’America medio-alta che viaggia. Una minoranza. Si calcola che solo il venti per cento dei cittadini abbia il passaporto”.
C’è stata una piccola, grande svolta, allora, nel modo americano di guardare all’Italia?
“Decisamente sì. Ricordiamoci, inoltre, di una cosa. Gli americani, un po’ come i britannici ai tempi dell’impero, hanno adottato un motto: “Right or wrong, my Country”, giusto o sbagliato, è il mio Paese. E il fatto che l’Italia sia stata al fianco degli Stati Uniti in Iraq in una situazione difficilissima per tre anni e mezzo -al di là delle opinioni che ciascuno può avere sull’opportunità dell’intervento americano e sulla guerra mal condotta come ormai loro stessi riconoscono-, ha avuto un forte impatto non solo per i repubblicani ma anche per i democratici. Nel momento della necessità, gli italiani erano lì”.
Scommette su Rudolph Giuliani o su Hillary Clinton alla Casa Bianca?
“Non c’è dubbio che Giuliani, e qui parlo come italiano, potrebbe darci una notevole soddisfazione come prossimo presidente degli Stati Uniti. Sta facendo una buona campagna elettorale e raccogliendo discrete risorse finanziarie, essenziali per poi vincere. Però agli occhi di molti repubblicani del Sud e del Mid West Giuliani appare troppo progressista. Troppo “repubblicano di New York”, cioè della East Coast, troppo europeizzante, troppo liberale. Pur essendo stato il sindaco della “tolleranza zero”. Hillary ha un problema analogo: i democratici del Sud e forse pure quelli della California non la considerano affidabile. Troppo “politica”. E poi con lei inevitabilmente “tornerebbe” il marito, Bill Clinton, alla presidenza. Quindi…
Quindi sorpresa: non saranno loro i candidati?
“Lo capiremo in autunno, un anno prima delle elezioni. Sul tanto citato e nuovo Obama, democratico, grava l’inesperienza politica. Piuttosto, io non escluderei il ritorno di Al Gore sulla scena. E in campo repubblicano non dimenticherei Romney, attuale governatore del Massachusetts, e il senatore John McCain dell’Arizona. Anche se quest’ultimo ha appoggiato fino in fondo la guerra irachena, che rappresenta la più pesante ipoteca sui repubblicani”.
Ma chi è stato il presidente americano più importante per l’America, e per noi?
“Io ho delle mie idee. Eisenhower è stato un grande presidente sia sul versante della guerra fredda, sia per la capacità di uscire dal pasticcio coreano, sia per il grande equilibrio del ’56 nelle vicende arabo-israeliane. Anche George Bush senior è stato un presidente importante per l’America, ed eccellente nel rapporto con l’Italia”.
Nella cultura americana di oggi pesa di più Hollywood o Cape Canaveral?
“Ancora Hollywood ma nella versione più larga dell’intrattenimento oltre lo spettacolo. Anche i lanci da Cape Canaveral nello spazio devono comunicare al di là dell’aspetto tecnologico. Il sistema-Hollywood resta il cuore di quella cultura americana che l’America ha esportato nel mondo”.
Disney World o Wall Street?
“Direi Wall Street. Con tutti i suoi ammiratori e detrattori”.
La Coca-cola o il baseball?
“Baseball. La fisicità e insieme lo spettacolo tipici dello sport”.
Lei come ha vissuto l’11 settembre in America?
“Ero proprio a New York e, anche a distanza di qualche anno, ho un ricordo indelebile: il silenzio improvviso. Erano le nove del mattino, New York è una città particolarmente rumorosa. Ebbene, a un certo momento è come se si fosse propagata anche lontano dalle Twin Towers l’ondata di sgomento per l’attentato terroristico, quando fu chiaro che non si trattava di un incidente aereo, com’era sembrato all’inizio. E non c’è stato panico. Stupore, sorpresa, naturalmente dolore ma non panico”.
Quanto peserà l’11 settembre sulla mentalità americana di domani?
“Si è detto sempre della consapevolezza della vulnerabilità. La reazione è stata ferma, secondo alcuni perfino troppo: si pensi al Patriot Act, alle norme sulla sicurezza non solo negli aeroporti, all’intrusione nella vita dei cittadini americani. Cittadini che, oltretutto, sono molto gelosi delle loro libertà civili. Forse anche per effetto della guerra a dir poco deludente -per usare un eufemismo- in Iraq, un numero crescente di americani s’interroga, senza venir meno al patriottismo, proprio su come si sia reagito all’11 settembre. Una reazione che ha paradossalmente alimentato l’anti-americanismo nel mondo. E’ questo il punto in discussione”.
La lezione del Vietnam non è stata imparata per prepotenza o per ingenuità?
“Come scrivevo nei miei rapporti dell’epoca, l’amministrazione americana e i militari sono ossessionati da due pericoli contrapposti. Da una parte il “cut and run”, il tagliare la corda, come accadde nell’83 in Libano con la strage di duecentocinquanta marines causata da un camion-bomba. E come si ripeterà dieci anni dopo a Mogadiscio con l’uccisione di venti marines. Dall’altra il rischio del pantano vietnamita. In Iraq non hanno voluto ripetere le esperienze libanesi e somale e sono caduti in una specie di avvitamento vietnamita. C’è, allora, un mix di arroganza e di ingenuità. Attenzione, l’arroganza di chi però ha combattuto e vinto ben tre guerre mondiali tra “calde” e fredde. E che, guardandosi in giro, vede un’Europa disunita, vede le macerie dell’ex Urss, vede la Cina comunque lontana. Senza poi dimenticare che i corposi bilanci della Difesa alimentano il sistema industriale ed economico americano. E’ una forma di dirigismo indiretto. Ma una cosa è vincere la guerra, altra è vincere la pace. E il caso dell’Iraq è purtroppo indicativo. Esattamente come quello del Vietnam, dove l’America non perse “militarmente”. Perse “politicamente”.
Ma alla fine lei l’ha trovata, l’America, o la sta ancora cercando?
“Penso di averla trovata. Non solo per il lungo soggiorno. Ho letto molto sull’America, anche dopo. La riflessione rafforza l’esperienza”.
Pubblicato il 24 giugno 2007 sulla Gazzetta di Parma