“Nino, quella notte c’ero anch’io”: benvenuti da Nino Benvenuti, già campione del mondo nel pugilato che qui racconta tutto

Nino Benvenuti è nato a Isola d’Istria e ha sessantanove anni. Ha praticato il pugilato fin da ragazzo, vincendo la medaglia d’oro e la coppa Baker alle Olimpiadi di Roma (1960) e diventando, successivamente, campione del mondo sia nella categoria dei superwelter che in quella dei pesi medi, nella quale è stato pure campione europeo e italiano. Ha perso uno solo dei centoventi incontri nella carriera dilettantistica, e ha ottenuto ottantadue vittorie sul ring sui novanta incontri disputati da professionista (di cui quasi la metà per k.o.). Oggi Nino Benvenuti è commentatore televisivo dopo aver fatto anche un’esperienza di volontariato in India, da madre Teresa di Calcutta.

 

Quando ha dato i suoi primi pugni?

“Li ho dati a un sacco di iuta pieno di frumento che avevo appeso a una trave nella cantina di casa, a Isola d’Istria. Avevo dodici anni e mezzo. M’ero messo anche un paio di calzettoni alle mani per non farmi male. E, in più, avevo steso delle corde intorno a delle colonne di cemento, costituendo non un quadrato, ma un triangolo. Quel triangolo in cantina è stato il mio primo ring”.

E gli ultimi?

“A Montecarlo nel 1971, nella sconfitta che ho subìto da Carlos Monzón. Doveva essere la rivincita con l’argentino che mi aveva strappato il posto di campione del mondo nei pesi medi in un precedente incontro. E invece fu la riperdita. Avevo trentatré anni”.

Tra i primi e gli ultimi guantoni indossati, chi è stato Nino Benvenuti?   

“Un pugile precoce. La passione me l’ha trasmessa mio nonno Francesco, padre di mio padre. In realtà alla professione poteva essere destinato papà, che si allenava a Trieste in una palestra vicino al banco di pesce dove lavorava. Aveva un fisico preparato. Senonché…”.

Senonché?

“Un giorno, tornando a casa, portò un paio di guantoni per giocare con gli amici. Tra i quali figurava Massimo Bin, che era più forte, essendo un peso massimo. Quest’ultimo esagerò, e allora mio padre reagì dandogli un pugno sul naso. Cominciò a uscire del sangue, e Massimo andò sul fiume per asciugarlo. Ma soffiandoselo, si procurò pure un ematoma agli occhi. Si spaventarono tutti, amici e loro genitori. E il nonno disse a papà: mai più palestra. E così interruppe una sicura carriera”.

Ci penserà lei a “vendicare” i sogni di suo padre, che si chiamava…

“Fernando, si chiamava Fernando. Mi assomigliava moltissimo, se non per il diverso colore dei capelli. Noi figli eravamo quattro fratelli e una sorella. Avevamo un villino niente male e, forse perché suggestionato dai racconti del nonno -chi lo sa-, io cominciai ad allenarmi per conto mio. Non avevo nozioni di alcun tipo. Tutto ciò che ho improvvisato, me lo sono inventato. E’ curioso, ma l’aria di famiglia m’è penetrata senza annunciarsi”.

La palestra in casa, e poi?

“Il mio era un paesino di seimila abitanti. Ma molto sportivo. La “Pulino”, società di canottaggio, aveva vinto le Olimpiadi del ’28. La squadra cittadina di calcio si misurava nel campionato italiano di serie A. E così non fu difficile per Luciano Zorzenon, un palombaro che era arrivato per recuperare il Rex – il primo transatlantico che aveva conquistato il Nastro Azzurro, anni prima, per la traversata dell’Oceano, e che era stato affondato durante la guerra-, non fu difficile per questo palombaro, dicevo, dar vita a una squadra di pugili. Combattemmo a Pola, Maribor e Capodistria. Non dimenticherò mai l’ovazione che ebbi a Pola, dopo aver battuto un ragazzo di sedici anni, Tonella. Perché io ne avevo appena tredici! Mi portarono in trionfo sulle spalle. Anno 1951”.

Quali erano i segreti del mestiere che cominciava a scoprire?

“Primo, non prendere pugni. Secondo, non essere colpiti, colpendo. Terzo, mettere il colpo giusto mentre l’avversario attacca. Due forze che si scontrano, raddoppiano la potenza, giusto? Io avevo molta velocità e un buon colpo d’occhio. Capii molto presto che avrei dovuto agire come si agisce nella scherma. Questo è il segreto della scuola italiana, che anche oggi è una buona scuola e forma dei campioni”.

Deduco che ce ne siano altre, allora…

“Certo. Negli anni Cinquanta e Sessanta andava la scuola francese, per esempio: guardia molto alta e tanto movimento del corpo, senza troppo badare alla tecnica. Il nostro era ed è un pugilato più diretto. Il sinistro alto e lungo con l’avversario per poi colpirlo col destro al momento opportuno. Non l’attacco a testuggine, per intenderci, ma la creazione di un’azione di rottura”.

Sta dicendo che il pugilato non è sport di mani, ma di testa?

“Senza dubbio. Tant’è che anche le ragazze oggi esercitano molto bene, pur non avendo la potenza del pugno maschile. Io le chiamo “pugilatrici”. Sono aggressive e scaricano una quantità inimmaginabile di colpi. Ma senza farsi del male, senza procurarsi dei danni, perché non c’è l’efficacia del colpo, che è tipica degli uomini. Per questo lo spettacolo delle pugilatrici è molto bello e molto tecnico”.

Inutile che ci giriamo intorno: il pugilato può far molto male…

“Indiscutibile. Io avevo uno staff medico straordinario. Erano amici dell’istituto Rizzoli, ricordo il professor Boccanera. Dopo un combattimento particolarmente duro, mi davano subito del “Reparil” per assorbire gli ematomi. Voglio dare un consiglio ai giovani che si avvicinano a questo sport: farsi controllare costantemente dai medici”.

Perché piace il pugilato, che è violenza dell’uomo sull’uomo?

“L’uomo ha insita la paura. Il pugilato rappresenta il coraggio di saperla e volerla sfidare con lealtà”.

Ma perché nel 2007 uno vuole fare il pugile?

“Oggi soprattutto per moda. Per il piacere di farlo. Questi giovani hanno tutti un diploma di scuola secondaria, e spesso sono anche laureandi. Nell’uomo c’è un desiderio ancestrale di lotta, l’animus pugnandi. Questo è alla base della scelta. Certo, oggi non si fa più il pugile per avere successo nella vita né per avere soldi, come accadeva coi tanti che sceglievano il pugilato per riscattarsi dalle loro difficilissime condizioni di esistenza. Adesso c’è meno continuità: i ragazzi smettono prima. Anche se ai miei tempi l’età limite era di trent’anni, mentre ora si può arrivare a quaranta. Ma il resto della vita oggi ha un peso maggiore né si può fare l’avvocato o il ragioniere e contemporaneamente il pugile”.

Lei da che cosa voleva “riscattarsi”?

“No, io provenivo da una famiglia benestante, avevo fatto il ginnasio -prima d’essere costretto a interrompere gli studi- e perciò non nutrivo rivalse. Il pugilato mi piaceva, semplicemente. Mi veniva naturale. Non mi costava fatica. Spesso la gente che mi ferma per strada mi dice: chissà quanti sacrifici. Io rispondo sempre di sì perché questo tutti s’aspettano, ma non è vero. Non mi sono mai sentito stanco né ho mai avvertito che stavo facendo dei sacrifici fisici o spirituali. Gli altri andavano a ballare e io andavo in palestra”.

Quanto s’allenava?

“All’inizio poco, un’ora al giorno. Per me era solo un gioco. Mi divertiva. Le cose cambiarono col tempo e coi titoli che conquistavo. Soprattutto a partire dal ’54, quando siamo stati costretti a lasciare, da esuli, Isola per trasferirci a Trieste”.

Togliamoci subito il dente che fa male, e non ne parliamo più: perché quella sconfitta con Monzón, e proprio nell’ultimo incontro della vita?

“Arrivai a Montecarlo preparatissimo. Ma alla terza ripresa, se ricordo bene, presi un colpo dietro la nuca che mi mandò sulle ginocchia in avanti. Il mio Bruno Amaduzzi lanciò subito l’asciugamano sul ring; asciugamano, peraltro, che già aveva in mano fin dalla prima ripresa. Ma io stavo bene, e lo calciai via dal ring. Troppo tardi”.

Era giusto gettare la spugna o continuare a combattere?

“Amaduzzi fu paterno: aveva ragione lui. Io avrei anche potuto farcela fino alla fine. Ma la verità è che dentro di me s’era spento, s’era esaurito qualcosa. Avevo già vinto tutto quel che c’era da vincere. Al contrario, Monzón era motivatissimo. Lui era nelle condizioni in cui io m’ero trovato a suo tempo. D’altronde, ricordo bene pure il primo incontro con lui. Non lo conoscevo e scoprii un kamikaze: vincere o morire. Presi un terribile destro, mentre ero all’angolo. Persi i sensi, veramente. E quando andai per terra, già avevo dato tutto”.

Che rapporti aveva e ha con gli avversari fuori dal ring?

“Io amo il mio avversario, vincitore o -molto più spesso- vinto che sia stato. Quando Monzón finì in galera per la morte della moglie, andai a parlargli due volte in carcere, a Junín, in Argentina. In fondo per me era stato l’uomo più importante del mondo, perché aveva preso il mio posto nel mondo. Aveva un carattere molto difficile, chiuso, indigeno. Faticava a integrarsi con gli altri. Ricordo che gli chiesi: chissà quanto leggi, adesso che hai del tempo a disposizione. Mi rispose che non leggeva proprio niente. Era un uomo duro, un pugile fortissimo. Uno dei pochi più alti di me di tre centimetri”.

Le sue “coordinate”?

“A peso libero 74 chili, e 1,79 di altezza “a militare”. Col tempo non sono cambiato. Lo dico con una punta di civetteria. Quando mi chiedono come io faccia a mantenermi così, rispondo: mi sono scelto i genitori giusti…”.

Olimpiade di Roma, 1960: qual è la prima cosa che le viene in mente?

“La mia felicità. Non solo mi sarei accontentato di parteciparvi, e vi partecipai. Ma vinsi la medaglia d’oro nei welter. E neppure quello fu il massimo. Ebbi pure la coppa Baker che si assegnava ogni quattro anni al miglior pugile del torneo in assoluto. Per intenderci: nell’altra categoria dei medio-massimi c’era un certo signore che si chiamava, ancora, Cassius Clay”.

Il più grande di sempre…

“Alì aveva una velocità e una serenità fuori dal comune. Questa spocchia con cui si presentava agli appuntamenti non gli faceva vedere la paura. Perché una cosa dev’essere chiara: anche i pugili hanno paura, devono avere paura dell’avversario. Mohamed Alì metteva soggezione alle persone. Io l’ho conosciuto anche lontano dal ring. Un grandissimo”.

Chi metterebbe accanto a lui?

“Nei medi Sugar Ray Robinson, nei massimi Joe Louis”.

E Rocky Marciano?

“Quello era un demolitore: 43 incontri vinti su 43. Picchiatore imbattibile, più ancora di Joe Frazier”.

Perché gli americani sono i più bravi?

“Perché sono tanti. E coltivano una tradizione che viene da lontano, dalla Gran Bretagna. Ma segreti non ce ne sono più per nessuno. Si combatte ad armi pari”.

Quanta corruzione c’è nel “sistema” americano?

“Negli anni Cinquanta c’erano condizionamenti mafiosi. Ma già negli anni Sessanta il controllo di legalità da parte delle autorità statunitensi era molto forte. Oggi il rischio vero a livello internazionale non è più il condizionamento esterno o addirittura criminale, quanto di trovare un arbitro non all’altezza dell’incontro. Quante volte accade d’assistere a una valanga di colpi inutili nei confronti di chi ha già perso, senza che intervengano né l’arbitro né il secondo”.

Torniamo a Nino Benvenuti: che significa combattere al Madison Square Garden di New York?

“La sensazione è quella di trovarsi in un luogo maestoso. L’incontro con Emil Griffith e la mia vittoria mi spalancarono le porte dell’universo; più della stessa e precedente Olimpiade a Roma. In Italia erano le quattro del mattino, Paolo Valenti faceva la radiocronaca. Venti milioni di persone mi seguivano. Anno 1967. Ma anche sul posto c’era un tifo incredibile di italo-americani e di italiani venuti apposta con dei voli per sostenermi. Tanto che Griffith, altro pugile di cui sono grande amico -tant’è che è stato padrino di cresima di Giuliano, uno dei miei cinque figli-, mi disse al termine dell’incontro: “Eri tu che combattevi in casa”.

Quale fu la chiave dell’incontro?

“Quella volta io lo colpii e andò a terra. Poi alla quinta ripresa andai a terra io. Ma ebbi la fortuna di riprendermi, anche se mi aveva preso all’orecchio, per cui potevo avere dei problemi di equilibrio. Vinsi ai punti perché nelle due ultime riprese tirai fuori tutto quello che avevo. Campione del mondo dei medi, e in America. Ma prima di iniziare mi ero concentrato bene. Mi ero disteso sul lettino, riuscendo a estraniarmi da tutto. Al punto che quando venne il medico a visitarmi pochi minuti prima del combattimento, si meravigliò della serenità con cui uscivo dallo spogliatoio. Senza saperlo, avevo inventato una sorta di training autogeno, come si dice adesso”.

E Griffith lei lo reincontrerà…

“Due volte. La prima vinse lui. Io mi presentai senza voglia di dare il massimo, perché mi sentivo appagato dal risultato già conquistato. E sbagliai. Ma quella volta feci il mio più bel combattimento. Perché a un certo punto avevo la mano, la costola e il naso rotti. Tenni duro e arrivai, comunque, alla fine. Al terzo, nostro incontro lo buttai a terra alla nona ripresa. Ero di nuovo motivato e lo battei. Per me fu l’apoteosi”.

E’ il momento del mito: com’era Primo Carnera visto da vicino?

“Proprio un gigante. Alto e largo, possente. Ma dolcissimo, educatissimo, discreto conoscitore di cultura, pur non essendo un uomo colto. Sapeva far tesoro di quel che imparava, e vestiva come un dandy. Lui e la moglie Pina hanno saputo crescere al meglio e laureare due figli. Carnera amava la famiglia. Come pugile era pesante. Però teneva lontani gli avversari col colpo sinistro, e aveva un micidiale montante destro dal basso verso l’alto che metteva k.o. Era un campione senza superbia, ecco. Di lui conservo l’immagine di un ultimo e molto tenero momento. Avevo appena battuto Griffith e andai a trovarlo, ormai sul letto, morente. Restammo da soli in tre nella sua camera: lui, io e la moglie per un brindisi commovente. Lui si tirò un po’ su con la spalla sul cuscino e, dopo aver bevuto il suo bicchierino di vino rosso, disse, o forse sussurrò: “Prendo ancora uno…”.

Nino Benvenuti: come vuole che gli italiani ricordino le imprese di Nino Benvenuti?

“Come molti mi dicono, quando ricordano il mio incontro di quarant’anni fa con Griffith, a New York: “Nino, quella notte c’ero anch’io”.

Pubblicato il 9 settembre 2007 sulla Gazzetta di Parma