Andrea Muccioli è il responsabile della Comunità di San Patrignano, che da quasi trent’anni è impegnata al pieno recupero dei giovani tossicodipendenti. Nato a Rimini, quarantatré anni, Muccioli è laureato in giurisprudenza e in sociologia. Anche il fratello Giacomo è presidente del comitato organizzatore dell’undicesimo Concorso Ippico che si conclude proprio oggi. E che è dedicato alla memoria del loro padre e fondatore della Comunità, Vincenzo Muccioli, scomparso nel 1995.
Presto la Comunità di San Patrignano avrà compiuto trent’anni di vita (gennaio 2008). Sarà festa di compleanno o bilancio di un anniversario?
“Sarà festa, perché non abbiamo l’abitudine di guardarci indietro sulle belle cose che abbiamo fatto. Amiamo le sfide”.
Almeno una deve anticiparla: quale?
“Stiamo lavorando a un progetto di formazione universitaria d’intesa con la Iulm di Milano e con l’Università di San Pietroburgo. Si tratta di un master sulla droga. L’obiettivo è di creare delle nuove professionalità che svolgano funzioni pubbliche per coordinare delle politiche sociali sulla tossicodipendenza. Sia il potenziale corpo docente, sia gli studenti interessati, potranno venire qui da noi a imparare”.
Ma il modello San Patrignano che cosa può insegnare?
“Un tempo venivano soprattutto i giornalisti per conoscerci e raccontare. Adesso arrivano anche moltissimi operatori che “vogliono sapere”. Si può, infatti, seguire il trattamento della tossicodipendenza con un modello educativo riconosciuto a livello mondiale. Il proposito non è, non può essere quello di portare il pesce a tutti, ma di insegnare a pescare con un metodo”.
Il principio basilare di tale metodo?
“Che la droga non è un problema medico: è un problema educativo. Perché riguarda l’uomo e il suo vuoto, la sua solitudine, la fuga dalla realtà che questo significa e comporta. Invece si continua a pensare al tossicodipendente come a un malato da curare in ospedale, da ricoverare in clinica, da guarire con dei farmaci. Questo ha determinato il fallimento sotto gli occhi di tutti, in Italia e all’estero”.
Sta dicendo che la famiglia e la scuola hanno alzato bandiera bianca?
“La Comunità di San Patrignano è una sorta di famiglia allargata. Una famiglia che guarda al suo fratello-drogato come a una persona che deve innanzitutto crescere. Sì, come a scuola. E poi che deve accettare se stesso, che dev’essere consapevole dei propri problemi per poter cambiare. Partendo da questo presupposto, ci vogliono strumenti e anni di lavoro. Ma quasi mai medicina, e qualche volta psicoterapia”.
Che cosa rappresenta il Concorso Ippico in corso, l’undicesmo, per San Patrignano e per chi non è di San Patrignano?
“Per noi è la realizzazione di un sogno. Il sogno che mio padre aveva espresso con gli occhi e col cuore, quando su un pezzo di collina spianata aveva detto: “Qui salteranno i più grandi cavalli del mondo”. I migliori cavalieri oggi gareggiano qui. C’erano altri due importanti e concomitanti concorsi internazionali (uno in Portogallo, l’altro in Francia) con altissimi monte premi. Eppure, otto dei primi quattordici cavalieri nella lista mondiale hanno scelto di saltare a San Patrignano”.
E per noi che guardiamo da fuori, che valore potrebbe o dovrebbe avere questo concorso?
“Di testimonianza. La constatazione che dei ragazzi perduti e considerati degli scarti sociali, la dimostrazione che dei malati cronici e degli irrecuperabili, se credono in se stessi sono capaci di organizzare i più grandi eventi del pianeta. I migliori concorsi. Perché tutto, dal campo di gara alle decorazioni floreali, dall’ospitalità al servizio ristorante, tutto ma proprio tutto è opera dei ragazzi”.
La comunità accoglie centinaia di giovani: quanti?
“Circa milleottocento. Ma da San Patrignano in trent’anni sono passati quasi 25 mila ragazzi. Nessuno di loro ha mai pagato una lira. Né le loro famiglie né lo Stato. Anzi, all’istituzione pubblica abbiamo fatto risparmiare trenta milioni di euro all’anno. A ciò s’aggiunga il risparmio non quantificabile ma ancor più rilevante della società, che non ha subìto il comportamento di tanti giovani sbandati. San Patrignano vive per metà grazie alle donazioni dei privati e di organizzazioni private; per metà grazie al lavoro straordinario dei ragazzi”.
Accogliendo tanti bisognosi, e da anni: come e quanto sono cambiati questi ragazzi?
“I ragazzi cambiano, perché cambiano le persone che li educano. Quelli con cui io sono cresciuto alla fine degli anni Settanta e Ottanta, erano molto difficili e rabbiosi. Gridavano contro la società, a cui attribuivano la colpa del loro fallimento. Erano giovani complicati da aiutare. Però avevano un’identità, per quanto segnata e distrutta. Avevano una storia da raccontare e dei sogni in cui credere. Invece i ragazzi di oggi sono fragili, sono inconsapevoli, sono dei contenitori vuoti”.
Che cosa ha provocato questa diversità?
“Le cito un dato: il sessanta per cento di loro non ha mai visto una siringa. Da qui la non consapevolezza, perché la società ti illude che, finché non usi la siringa, non sei un drogato. E così ha creato una generazione di tossicomani inespressivi. Sui quali non c’è stato alcun investimento educativo”.
Al posto della siringa che cosa “va”?
“Il cosiddetto poli-abuso, cioè il cocktail di droghe, marijuana compresa”.
Altolà: perché lei è così ostile anche alla marijuana?
“La marijuana contiene principi attivi sempre più forti. Le canne di una volta avevano il quattro o il cinque per cento di thc, l’ingrediente attivo della cannabis. Oggi siamo al venti, venticinque, trenta. Ciò significa schizofrenia nel giro di breve tempo. Ma non è solo per questo che è insidiosa. Lo è, perché chi vi ricorre lo fa per alterare le sue condizioni. La marijuana è uno strumento per scappare dalla realtà, e come tale da giudicare illecito e pericoloso. Anche perché viene associata agli anfetaminici e, sempre più spesso, all’alcol. Alcol che viene a sua volta usato sempre in maggiore quantità come droga, come s’usa la cocaina”
Diceva del micidiale cocktail, prima dell’interruzione (voluta) sulla marijuana…
“Ormai regnano i prodotti sintetici e deteriori, che costano ancora meno rispetto alle droghe più note, e rovinano ancora di più. Del resto, le statistiche indicano che a tredici anni avvenga la prima assunzione di droga per tre su quattro ragazzi”.
Intende ragazzi che si drogano?
“No. Intendo proprio i ragazzi nella loro generalità. L’ultimo rapporto del Parlamento fotografa una realtà drammatica. I giovani di ieri non erano educati a diventare dei consumatori, ma dei cittadini. E la società era ancora capace di dire che cos’era giusto e cosa sbagliato, anche attraverso le sue leggi. Oggi la società è allo sbando, è preda del pregiudizio per cui la devianza e la dipendenza non devono essere riconosciute come dei fenomeni negativi. E questo finisce per “normalizzare” la droga”.
Non degni cittadini di uno Stato ma allegri consumatori di qualunque cosa: a sei anni dipendenti dalla play station e poi a tredici della droga senza siringa, cioè che non spaventa più. Ho riassunto bene?
“Gli adulti parcheggiano i loro figli davanti al video, perché gli adulti non ci sono più; in tutti i sensi. Fin da piccoli ci insegnano a “desiderare” il consumo. Ore e ore su internet, tanto nessuno ci sgrida più. E’ evidente che senza un minimo di educazione, l’adolescente non coltiverà neppure il dubbio che la droga faccia male”.
Qual è la svolta necessaria?
“Noi siamo un po’ un osservatorio privilegiato, perché a San Patrignano non vige la logica del consumo per il consumo. Qui vivono delle persone, condividendo degli ideali e dei valori, e nient’affatto isolate dal resto del mondo, col quale hanno, anzi, un rapporto osmotico e continuo. Possono confrontare e notare, per questo, la differenza”.
Ma i valori quanto aiutano, nella realtà, a “recuperare gli irrecuperabili”?
“Mi trovo, purtroppo, a dover distinguere: quei ragazzi che riusciamo a prendere in tempo –sei o sette su dieci, in media; tutti al di sotto 25 anni che hanno conosciuto la droga da giovanissimi e mai con la siringa, come dicevo-, questa parte sì. E considero un onore poter vivere tra loro, e partecipare al loro percorso di costruzione tirando fuori la bellezza, la vitalità e l’altruismo che hanno dentro di sé. Se non apparisse come un paradosso, mi verrebbe da dire che è facile riportarli alla vita, tanto essi sono straordinari. La seconda tipologia di giovani è quella creata dal metadone selvaggio, dall’approccio sbagliato dei servizi pubblici, dalla medicalizzazione del problema. Ricordo mio padre che nel ’93 aveva detto: se va avanti così, tra quindici anni raccoglieremo disastri”.
“Così” come?
“Con le politiche sociali che da anni bivaccano tra il Sert, i servizi per la tossicodipendenza, e la galera. Che educano nel senso di far credere che con la tossicodipendenza si possa in qualche modo e alla meno peggio convivere. Che elargiscono metadone di mantenimento in quantità sempre più massacranti. La politica sociale incapace di scegliere, la politica della “doppia diagnosi” come la chiamo: il drogato allo stesso tempo emarginato nella società, e malato per la psichiatria”.
E alla fine sono costretti a scippare la vecchietta per farsi un’altra, ennesima dose…
“No, scippatori erano i miei fratelli con cui sono cresciuto a San Patrignano. Adesso magari investono in auto i bambini per strada. Adesso sono un pericolo vero per sé e per gli altri. Ormai certi fenomeni appaiono quasi “normali”. Come se un autista che guida o un medico che lavora, potessero farlo sotto “trattamento farmacologico”: lo chiamano così”.
In che cosa eccellono i “suoi” ragazzi?
“Noi ci diamo sempre gli obiettivi più ambiziosi: vedere come sono e dove si fanno i vini o i mobili migliori del mondo. E confrontarci con quelli, solo con quelli”.
Che Italia trova, girandola?
“Da un po’ di tempo ho scelto di girare per il mondo. Trovo che sul piano politico-istituzionale da noi ci sia troppo provincialismo. Il patrimonio straordinario di cultura e di arte che abbiamo alle spalle, sta diventando un alibi per sedersi. Invece c’è ancora tanto da scoprire. All’estero abbiamo creato una rete di oltre duecento comunità, abbiamo partecipato a tante conferenze sulla droga a livello mondiale. Abbiamo parlato all’Onu e a Davos, alla Camera dei Lord. Anche il pragmatico popolo inglese pur tardivamente e con anni di “convivenza” col fenomeno della droga, ora ha compreso il fallimento, e sta tornando indietro. In Gran Bretagna stiamo aiutando una delle massime organizzazioni senza fine di lucro. Lo stesso ci hanno chiesto di fare in Belgio, in Russia, in Canada e negli Stati Uniti”.
Sono solo le istituzioni italiane che sottovalutano l’esperienza di San Patrignano, alla fine?
“Siamo sottovalutati dalle istituzioni che viaggiano per ideologie, anziché per fatti concreti, che siano di una parte o dell’altra. Quand’è che vi deciderete a fare una ricerca seria sulla valanga di denaro buttato nei cosiddetti servizi sociali, chiedevo ai miei interlocutori istituzionali? Nel passato ho rotto talmente le scatole, che l’allora ministro della Salute, Girolamo Sirchia, fece promuovere una ricerca da enti terzi. Furono mandati quesiti scientifici a centotré Sert e a cento comunità. Sa quanti hanno risposto? Dieci comunita e cinque Sert”.
Oggi il ricordo di suo padre e fondatore della Comunità, Vincenzo, è più dolce o più amaro?
“Io vedo San Patrignano come un gigantesco albero che continua a crescere. I ragazzi sono le foglie e i frutti che s’aggiungono ogni anno. Un albero che a volte non si conosce (metà dei giovani d’oggi non ha mai conosciuto mio padre), che non si guarda e forse che neppure si vede. Ma tutti sanno da dove attingono la forza e il nutrimento: dalle radici di mio padre”.
Pubblicato il 22 luglio 2007 sulla Gazzetta di Parma