Quando il Renzo (e non il Renzi) dei Promessi Sposi sente elencare in latino tutti gli impedimenti del diritto canonico che don Abbondio gli sta citando per non celebrare le nozze con l’amata Lucia, quel Renzo, dunque, lo interrompe così: “Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.
Reagendo col buonsenso, il giovane liquida i vari “error”, “conditio”, “votum”, “cognatio”, “crimen”, “Cultus disparitas”, “vis”, “ordo”, “ligamen”, “honestas” e “Si sis affinis” con cui il curato provava a boicottare, con l’oscurità della parola colta per un uomo semplice del popolo, quello che sarebbe diventato il più travagliato matrimonio della letteratura italiana. Un matrimonio, com’è noto, “che non s’ha da fare, né domani né mai”.
Il latinorum dei tanti che oggi rappresentano la classe dirigente del Paese, specialmente ma non solo in ambito politico, è più approssimativo e conformista. Tuttavia, l’esito non cambia: parole astruse, talvolta inventate di sana pianta, per non dire pane al pane in lingua italiana, bensì “spending review”, “welfare”, “jobs act”, “bipartisan”, “convention” e perfino “question time” presi a prestito dall’anglorum, cioè da quello che gli italiani poco abituati all’inglese credono che sia la lingua parlata a Oxford e a Cambridge. Come don Abbondio, i creduloni ma influenti iscritti al club di anglicisti alla Totò, che hanno fatto il militare a Cuneo, vogliono dare al pubblico un’alta considerazione di sé, esibendo confidenza internazionale: a tu per tu col mondo immaginato e immaginario, of course. Non sanno che neppure nel Parlamento europeo si usa l’espressione “question time”, tanto di moda in quello italiano per indicare uno degli atti più importanti della Repubblica italiana: il governo che risponde alle domande degli eletti del popolo. Il celebre “c’è qualcuno che parla la mia lingua?”, stile professor Marcus Brody nel terzo Indiana Jones, non è contemplato tra i parlamentari delle Camere pur italiane.
La sindrome del ricorso al “question time” al posto di “tempo d’interpellanza” (oppure l’”ora delle domande”, “il governo risponde” e altri cento modi di dire più espliciti e più belli nella lingua del Parlamento che pubblica le sue leggi sulla Gazzetta Ufficiale non a Londra, ma a Roma), l’espediente, dunque, di non usare la lingua nazionale per qualificare un atto pubblico, altrove sarebbe impossibile. In Francia già nel secondo articolo della Costituzione si ricorda che “la lingua della Repubblica è il francese”. In Spagna già nel terzo articolo della Costituzione si precisa che “il castigliano è la lingua ufficiale dello Stato. Tutti gli spagnoli hanno il dovere di conoscerla e il diritto di usarla”. In Portogallo già all’articolo 9, tra gli elencati compiti basilari dello Stato, figura quello di “assicurare l’insegnamento e la valorizzazione permanente, difendere l’uso e promuovere la diffusione internazionale della Lingua Portoghese”. Ogni Paese considera la propria lingua un valore supremo per tutti, degno di essere tutelato, in patria e all’estero, con un principio costituzionale.
E noi come consideriamo, in Italia, la millenaria lingua di Dante?
Nei primi dodici articoli che esprimono i “principi fondamentali” della nazione, non c’è traccia della nostra lingua. Se non nel fatto che la nostra Carta sia stata scritta con chiarezza, sobrietà e in modo incisivo: i padri costituenti non ricorrevano al latinorum né all’anglorum. Per scoprire l’eleganza anche letteraria della Costituzione, basta metterla a confronto con le successive modifiche introdotte negli anni e scritte quasi sempre coi piedi. Sono piene di ripetizioni, contorte, in puro politichese. Brutte, le modifiche.
Paradossalmente, il rango costituzionale a cui è stata nel frattempo elevata la lingua italiana dimenticata dalla Costituzione, lo si deve al caso. Alla scelta della Repubblica italiana di salvaguardare non la nostra, bensì un’altra lingua: quella tedesca a Bolzano e dintorni.
E così all’articolo 99 dello statuto di autonomia, che dal 1972 è legge costituzionale, si dice “nella Regione (Trentino-Alto Adige nda) la lingua tedesca è parificata a quella italiana, che è la lingua ufficiale dello Stato”. L’italiano è salito in vetta in Italia solo per la necessità di proteggere il tedesco fra le Dolomiti. Incredibile, e meno male.
Eppure, il ricorso continuo a un linguaggio che persino il giorno delle elezioni, pardon, l’election-day, fa dell’exit poll il know-how dell’endorsement comunicativo -così parlano gli Azzeccagarbugli del Palazzo-, conferma che il momento è arrivato. Il momento di fare quel che francesi, spagnoli, portoghesi e tutti i popoli che provano amore e rispetto per la propria lingua-madre, hanno fatto da tempo: aggiungere che “la lingua della Repubblica è l’italiano” nella prossima revisione della Costituzione che si annuncia in Parlamento. Sarà, quello, il tempo di Renzi, e non più di Renzo. Ma in nome della lingua italiana qualunque matrimonio politico-legislativo gli sarà, per l’irripetibile occasione, perdonato.
Intendiamoci, l’italiano scolpito nella Costituzione italiana, non eliminerà la sciatteria, la pigrizia, la banalità culturale e intellettuale, per esempio, dei titoli cinematografici lasciati in inglese nella versione doppiata in italiano. “The wolf of Wall Street” (con Leonardo DiCaprio) in tutto il mondo spagnolo e sudamericano è stato presentato come “El lobo de Wall Street”, esistendo la parola “lupo” anche nella nostra bella lingua. Ma noi no, noi siamo uomini di mondo, alla Totò. Preferiamo il timing e l’outing, la mission che è in e la fashion che è out, l’happy hour e la security, il costumer e la first lady, il briefing e il day hospital, il drink al party e lo share in prime time, che è più trendy e friendly, come il backstage nel trailer del movie. E chi più ne ha, più ne inventi. Liberi tutti, come a nascondino.
Ma l’introduzione dell’italiano in Costituzione quale “lingua della Repubblica”, ci aiuterà a diventare sempre più universali e poliglotti, anziché i provinciali dell’anglorum. E poi la soddisfazione di non sentire più invocare il “question time”, quando gli onorevoli se le cantano tra loro, varrà da sola questa piccola, grande riforma.
Pubblicato su Il Messaggero di Roma